SENS
Shakespeare’s Narrative Sources: Italian Novellas and Their European Dissemination
Luigi Groto
La Adriana
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| LA ADRIANA
TRAGEDIA NOVA Di Luigi Groto Cieco d’Adria
In Vinegia, Appresso Domenico Farri MDLXXVIII
Luigi Groto Cieco d’Adria all’illustrissimo San Paolo Tiepolo riformator dello Studio di Padova, e Procurator di San Marco
Il più savio consiglio, che possa cader nel petto d’un padre, è il non tenersi lungo spazio in casa le figliuole giovani, ma subito, che son mature alle nozze, sgravarsene, et collocarle il meglio, che può. Questo avviso avendo io da gli altrui essempii apparato; e a punto da questa Tragedia stessa; l’ho osservato in questa Tragedia medesima. E battendo risoluto di collocarla, ho proposto meco di offerirla a Vostra Signoria lllustrissima per tre cagioni: per merito suo, per beneficio dell’opera, e per interesse mio. Il merito suo è tanto, che merita dominio sovra le fanciulle reali, come è questa. Merito, che quando il mio intelletto era gravido di questa fanciulla; pria che la partorisse, disegnasse donargliela. E meriterebbe, che se le muse proprie, se Apollo medesimo proponesser di scrivere, le donasser gli scritti loro. Il beneficio dell’opera sarà tale, che ella ne diverrà più pregiata, più dolce, più sicura, più alta, e al fine immortale. Le mani di Vostra Signoria tengono della virtù di Mida. La sua bocca serba in parte la qualità delle pecchie. Onde quest’opera di piombo e d’assenzio ricevuta dalle sue mani, proferita dalla sua bocca, diventerà d’oro e di mèle: la Natura, poi che ha prodotto i frutti sugli alberi, intendendo l’acerbità loro, gli spiega al sole, accioché maturati da quel raggio celeste, piacciano al gusto. Io, la natura imitando, volgo questo mio frutto acerbo al sole della vostra virtù. Colui che non vuole udire il gracchiar notturno delle rane in un lago, vi fa comparir la notte nel mezo un lume. Io, per acquetar qualunque mormoratore pensasse biasimar questa mia fatica, li pongo avanti gli occhi lo splendore del vostro nome. Le cerve cacciate, non potendo in altra guisa involarsi ai denti de’ cani; rifuggono all’uomo. Questa mia figlia, quasi tenera cerva, per ischifare i morsi de maligni laceratori degli altrui scritti, in mansueto gesto accomanda sé stessa alla virtuosa umanità di Vostra Signoria Clarissima. Le rondini, per campare i figli da tutti gli altri animali, eleggono nelle nostre case le più alte travi, a cui sospendono i nidi. Io, per campar questo mio parto da qualunque fiera il pensasse offendere, lo appendo al vostro altissimo nome. Il prencipe di Scozia, poi che ebbe ornato quel pino dell’armi da lui raccolte, stimò d’assicurarlo maravigliosamente col titolo, che diceva A R Matura d’Orlando Paladino. E a me parrà d’avere assicurato quell’opera col nome di Vostra Signoria Eccellentissima in fronte. Metabo Rè de Volschi, per liberar la pargoletta figliuola da ogni pericolo, la dedicò alla sorella del Sole. Io, che non men amo la mia Adriana, che quel re sì amasse la sua Camilla; con accorto consiglio la dedico a Vostra Signoria Clarissima. Le statue d’ariento, o di cera, mentre prattican nelle botteghe degli artefici lor genitori, son mosse, e maneggiate da tutti, ma poi che l’altrui voto le appende a qualche religiosa altezza, niuno le move più. Cotal privilegio attendo io da questa dedicatura a questo mio parto. Tanto fu il saper di Pitagora, che niuno ripugnava al parere approvato da lui per vero. Tanta fu l’autorità del favoloso Giove presso i Gentili, che niuno contradiceva a cosa commandata da lui per buona. Cotal ventura sentirà la mia opera col testimonio onorato di Vostra Signoria Illustrissima, piena d’autorità, e di sapere. La Natura, quanto più profonda il piè dell’albero verso il centro, tanto più leva la sua chioma poi verso il cielo. Et io, quanto più conosco il mio parto umile nello stile, tanto più cerco renderlo alto nella dedicatura. Prometeo, poi che ebbe formato quella sua effigie di terra, bramoso di darle vita, la appressò al sole. Opi, quando ebbe partorito Giove; accioché non fosse divorato dal tempo, figurato in Saturno, il diede in guardia ai Cureti. Giove, poi che fu nato Ercole, per farlo immortale, lo appese al petto della lattante Giunone. Et io, vago di procacciar vita, et una vita trionfatrice del tempo, et emula della immortalità a questa mia figlia; la appresso, la dò in guardia, e la appendo a Vostra Signoria Eccellentissima. Siché, se questa mia Adriana cederà alla mia Dalida sua sorella nella primogenitura, ad Altea nell’antichità della istoria: a Canace, nell’eccellenza dell’autore, a Cleopatra nella illustrezza delle persone, a Gismonda nella nobiltà dello Scrittore, dalle cui novelle è tradotta. Ad Orbech ne’ discorsi morali, a Rosimonda nella brevità, a Sofonisba nella novità dello stile, alle figliuole di Sofocle nell’arte, a quelle di Euripide negli affetti, e a quelle di Seneca nelle sentenze, non cederà ad alcuna nella dignità della persona, a cui si consacra. L’interesse mio fia sì grande che io locando in tal parte il mio parto, acquisterò nome di savio, quale acquista il cocodrilo, mentre conduce l’uova sì in alto, che non vi giungon l’acque del Nilo. E se io sarò conosciuto sciocchissimo nel comporre, sarò almen riputato accortissimo nel dedicare. Rammentisi dunque Vostra Magnificenza Clarissima, che le rose, e gli usignuoli (ancorché nascano tra le più incolte spine) son però graditi da ciascun sesso, e ciascuna età. E con questa mente gradisca questa mia Tragedia, intitolata Adriana. Parte dalla Principessa introdottavi, parte dalla mia patria (percioché fabricando questi miei cittadini sontuosi palagi; né potendo la mia povertà fabricar, fuor che una picciola casa; né cedendo io lor di grandezza d’animo; ho statuito rinovar tutta intera la patria mia nell’antica eccellenza in cui già fioriva) parte da più secreta cagione intesa da pochi, pur intesa da alcuno. Ma udiamo ormai la Adriana. Così fosse questa eloquente come quella, per cui è allevata, e quella fosse stata pietosa, e fedele, come questa, in cui è rinata, fosse questa bella, come quella, e quella mia come questa.
Di Adria, il dì 2, di novembre. MDLXXVlll.
Persone che parlano.
Adriana, infanta. Nutrice. Orontea. Messo. Coro di Gentildonne adriane. Latino, prencipe. Atrio, re. Mago. Consigliere. Gentildonna. Semicoro di sacerdoti.
La Scena è in Adria, l’antica.
PROLOGO
Se mai tragedia agli occhi vostri offerta, Indi pietoso umor per forza irasse, Propizii spettatori, questa, ch’oggi Viene a farvi di sé dolente mostra Può trar dal petto vostro, e da le ciglia Un’Etna di sospiri, e un Mar di pianto. Tra per l’autor, ch’a voi la ordisce, e trama, Pien a ogni oscuro, e tragico accidente. Che chiusi avendo in nube eterna gli occhi, Meravigia non è, s’eterna pioggia Di lacrime ne sparge e altrui le move. E per color, che ’n lei vanno introdotti, I più fedeli, e più infelici amanti, che trafigesse mai lo stral d’Amore, Anzi d’Amor non già; ma stral di Morte. E al fin per la città, dove s’adempie La mestissima istoria. Poiché questa È la vostra città d’Adria. Non quella, Ch’oggi mirate, ma quell’Adria antica, Che mandò il nome a quell’ingrato Mare, Che’n guiderdone a lei tolse la vita, Allor, ch’ella ridea nel più bel fiore, E con le mura spaziose, ed alte Sembrava di volersi infra le braccia Stringer il mondo, e sostener il cielo. Dove or contrita in trita (et ita a l’aure In preda) poca, e lacrimosa polve (O quanto può questo girar di tempo) Piange il suo grave danno in grembo a l’acque, E l’acque, e ’l danno accresce a sé col pianto. E qual fosse la sua prima grandezza, Sol ponno ora insegnar le sue ruine. Anzi già le ruine ancora sono Ruinate, e perdute. E d’Adria il nome Su alle umili, e con umide penne, A pena s’alza sovra le paludi De la cittate a sé stessa sepolcro. E dove prima le carrette altere Velocissimamente solean correre; Or navi incedon tarde a remi lenti. E i lochi, dove le feconde spose De gli olmi già porgeano a lor coltori Il dolce latte, e le cortesi braccia; E del suo biondo crin fea Cerer copia; Stann’oggi armati di nodose canne. Dove pascean le gregge, il pesce or pasce. Dove solcò l’aratro, or solca il remo. Questo pensier nel pensier vostro impresso; De’ movervi a pietà di questi amanti, Che però per sé stessi anco pon farlo. Anzi fu dolce il giogo, il qual congiunse La reina del Rodope al nipote D’Egeo. Bench’egli assai soffra, vedendo Morta colei, che lui soccorse; et ella Da speme sciolta, e a duro laccio avvinta, Amandolo, in Amandolo si muti. Con lieto auspicio il frigio Enea s’unìo A la sidonia vedova reina. Bench’ella avesse dal crudel pietoso La cagione, e la spada, onde s’uccise, Et ei fuggisse il certo, e ricercando Lo incerto, andasse infino ai Regni bui. Giocondo fu lo indissolubil nodo, Con cui Piramo, e Tisbe accoppiar l’alme, Come accoppiate avean le mura, e i tetti; E come i padri avean disgiunti i cori. Benché come un medesmo stral d’Amore Li trafisse, così fosser trafitti Da una spada medesima ancor di morte. Sotto felice sella Ero, e Leandro, Malgrado di quel Mar, che tien l’Europa Divise, e l’Asia; giunser l’alme, e i corpi. Quandunque come gli arse un foco siesso: Li sommergesse una medesim’onda. Rispetto a le funeste, oscure faci, Con cui si maritar gli amanti, ch’oggi vi mostrerà l’apparecchiata scena. La cui istoria, scritta in duri marmi (Ma men duri però de la lor fede) Trovò l’autor, con queste note chiusa. “A te, che troverai dopo tanti anni la scoltura di questo acerbo caso; Si commette, che tu debbi disporlo. In guisa, che rappresentar si possa. Porgendo un vivo essempio in quella etate D’un amor fido a i giovani, e a le donne. Benché più lungo spazio ti convenga Stringer di tempo che non porta l’uso. Del che per iscusarti; hai qui licenza D’aggiungere una parte anzi il principio”. Così dicea. Godete dunque omai Adria, qual la godero i nostri padri. E poiché su la porta del palagio Con la nutrice sua, veggio Adriana; A lei volgete l’animo; e la faccia.
IL FINE DEL PROLOGO.
[1.1] Adriana, Nutrice
ADRIANA Riguarda atorno ben, cara nutrice, S’alcun vedi, onde possa esser raccolto Il nostro ragionar. NUTRICE Siam sole affatto. Che (come sai) col Re Atrio tuo padre Son tutti quei, che maneggiar ponn’arme Contra nemici nostri usciti in campo Oggi fuor de le porte a la giornata. E poi con Orontea tua genitrice Tutte salite son le gentildonne De la gran Rocca a la più alta ampiezza, Per mirar di là su qual fin sortisca L’aspra battaglia, e a lor parenti armati Forze aggiunger co’ voti, e con la vista. ADRIANA Vorrei depositar ne’ tuoi orecchi Il profondo tesor d’un mio secreto. E che mi promettessi di guardarlo Sotto chiavi di fede, e di silenzio NUTRICE Come di te depositarie fide Fur queste braccia; così fia il mio petto De’ tuoi pensier. Sì ch’ io lascierò trarmi Pria la lingua di bocca, o il cor del seno, Che da questa, o da quella il tuo secreto. ADRIANA Ahimè, che a palesarti quanto feci, Di vergogna mi sento arder la faccia. NUTRICE Non convien, figlia, vergognarsi a dire Quel, che non s’ebbe ad operar vergogna. Ma il segno non è rio che quando luce Qualche favilla dentro al cener freddo, V’è speme ancor di risvegliarvi il foco; ADRIANA Tu sai che varie nimicizie antiche Sparser semi di guerra tra Mezenzio Re di Lazio, e mio padre, Re di questo Nobil paese d’Adria. Onde colui Qua venne a stringer la bell’Adria nostra Di duro assedio, e numerose schiere, E a far prova di prenderla con l’arme. E la preme, e la oppugna or, più che mai. NUTRICE Così nol sapess’io. Così partita Foss’io dal mondo, pria che’l Re crudele Fosse giunto a guastar questo bel Regno. ADRIANA Il dì, ch’ei con l’essercito qua giunse, Desio mi nacque di salire al sommo De la gran torre, ov’or mia madre ascese, (onde si scopre a molte miglia in giro) Per indi rimirar le squadre armate Spiegarsi, et accamparsi a la campagna. Così in mal punto senza te v’ascesi. NUTRICE Cader non può se non colui ch’ascende. La saetta celeste altro non tocca Per lo più, che materia alzata ad alto. ADRIANA Ahimè, che’l tuo parlar purtroppo è vero. Così salita, vidi. Ahimè, che vidi? Vidi quel, che’l veder poscia mi tolse. Così stata foss’io circa quel giorno. Che la parte più lucida del corpo Trae spesso (a quel ch’io veggio) in notte l’alma. NUTRICE Non rileva, che sian cieche le luci; Ma che cieca non voglia esser la mente. Or’dimmi apertamente, che vedesti? ADRIANA Io vidi il primo, e l’ultimo mio male. NUTRICE Ahimè, ch’io tremo. E che mal fu cotesto? ADRIANA Fu il mio male un piacer senza allegrezza, Un voler, che si stringe, ancorché punga. Un pensiner, che si nutre, ancorché ancida. Un’affanno che’l ciel dà per riposo. Un ben supremo, fonte d’ogni male. Un male estremo, d’ogni ben radice. Una piaga mortal, che mi fec’io. Un laccio d’or dov’io stessa m’avvinsi. Un velen grato, ch’io bene per gli occhi. Giunto un finire, e un cominciar di vita. Una febre, che’l gelo, e’l caldo mesce. Un fèl più dolce assai, che mèle, o Manna. Un bel foco, che strugge, e non risolve. Un giogo insopportabile, e leggiero. Una pena felice, un dolor caro. Una morte immortal piena di vita. Un’inferno, che sembra il Paradiso. NUTRICE Il gir per tòrte, e disusate strade, scopre una conscienza, che non osa Apparir ne la via publica, aperta. Tu sei innamorata, a quel ch’io intendo. ADRIANA L’hai detto tu, non io. Né sai mentire. Era Amor ne l’essercito, e fu’l primo A dar solo l’assalto alla cittade. Mi saettò da lungi, ancorché cieco, E la più alta parte de la Rocca Prese quel giorno a colpi di saette. NUTRICE Rocca guardata mal, facil si perde. Ahimè, che questa novità m’ha morta. Piaccia a Dio, ch’erri la presaga mente. Or segui, donde trasse Amor gli strali. ADRIANA Visto mi venne il Prencipe Latino (A l’arme conosciuto, e ad altri segni) Figlio del Re Merenzio, tutto armato, Dal capo in fuori. NUTRICE Era scoperta solo Quella parte, che offender ti potea. Ma tu, per tua sciocchezza disarmata Con armato guerrier gisti in battaglia. ADRIANA Che le schiere ordinava. NUTRICE E tu le tue Lasciasti a l’or disordinate, e sparse. ADRIANA Per la lunga fatica avea le guancie Accese in vive fiamme. NUTRICE E tu nel petto Le ricevesti. ADRIANA E un bel destrier superbo Con gli sproni, e col fren, facea far prove, Qua mai non fecer Cillaro, o Pegaso. E al cor mio freno, e sproni al mio desire Strinse in quel punto. NUTRICE Ohimè come ti perdo O cieca diligenza de’ mortali, Che sotto chiavi tien chiuso l’argento; E le figlie Donzelle a freno sciolto Lascia vagar senza custode alcuno. ADRIANA Da poi, che lungo spazio contemplato L’ebbi, cacciata dalla notte; scesi, Non qual salii. Portai legato il core. NUTRICE Chi sé stissa legò, scioglier si puote. ADRIANA Colmi gli occhi portai di novo pianto. NUTRICE Se commiser l’error, soffran la pena. ADRIANA Da indi in poi; né dì, né notte alberga. In queste luci breve oncia di sonno NUTRICE Pur, che’n te la ragion troppo non dorma. Et io credea, che per la patria fossi Tanto ansiosa. O come un vizio brutto sotto vel di virtù spesso s’asconde. ADRIANA Spinta al fin dal desio, presi partito Di far palese al Prencipe il cor mio, Vedendomene offrir l’occasione. NUTRICE Così; non ti bastò rimaner vinta; Se te per vinta ancor non confessavi. ADRIANA Tu conosci il gran Mago, e Sacerdote Della Luna, alto mastro in più scienze, Curvo dal peso del senno, e degli anni, Che già venne di Persia a questo Regno Ma stette prima in Lazio alquanto tempo, E ’l palagio Real visita spesso. Che talor con mia madre, et talor meco Ragiona solo, e solo ha libertate D’uscire al campo a parlar con nemici, E tornar dentro. A costui dunque apersi (Provocata però prima da lui, Loqual dicea, che’n ciò stava la pace) Il mio concetto. Et egli mi promise Di rivelarlo al Principe, e lo fece. NUTRICE Destati, o padre, a guardia di tue figlie, A non fidarti d’uom d’alcuna etade, A non fidarti pur di te medesimo. La paglia è sempre paglia, il foco, foco. Il qual conviene, o che arda o almen che tinga. Or qual ti riportò costui risposta? ADRIANA Che avea trovato il Prencipe disposto Non men di me. Che quel medesmo giorno Mirandomi ne l’alto del castello, Era per me caduto in fiamme pari. NUTRICE Vorrei, che avesse anzi trovato ghiaccio. Temo coteste riscontrate fiamme Non adducano incendio troppo grande. ADRIANA Tosto il mago col Prencipe compose, che ne venisse a me nella cittade. E oprò con un di quei, ch’hanno le chiavi, Con cui s’aprono, e chiudono le porte, che introducesse il Prencipe la notte, ma sconosciuto, e in abito de’ nostri, Pur che venisse sol col brando solo, A un’ora ferma, e ’l rimandasse a l’alba. NUTRICE So, che tutti al tuo mal venner concordi. Ma pur, che tal concordia non produca Discordia grave. E tu vi acconsentisti? ADRIANA E che potev’ io far, s’era conchiuso Già, quando fui richiesta del mio voto? Se non vivo io, ma vive in me colui, ch’io amo più di me? s’io non favello, Ma in me favella Amor, qual Febo in quelli, Che gli oracoli altrui rendono in Delfo? Io fui contenta. NUTRICE Ben contenta fui, Dicesti, che or non sei forse. E se or sei, Non sarai forse lungamente. ADRIANA Taci, Di grazia, e annunzii non mi far sì tristi. Nella cittade il principe introdotto. Indi a due notti, o tre NUTRICE So,che il consiglio Del mal, noto non và, quando si cova. ADRIANA Le porte entrò del mio giardino NUTRICE Ahi lassa, Pur che più adentro ancor non s’introduca. ADRIANA E quivi mi trovò fra i fiori, e l’erbe. NUTRICE E non fuggisti allor l’orribil serpe? ADRIANA Chi può fuggir il cor, la vita, e l’alma? Cominciommi a parlar si dolcemente, che così non parlò mai lingua umana NUTRICE Dolcissimo è il cantar delle sirene. ADRIANA A’ piedi mi cadeo per adorarmi. NUTRICE Come viva Pantera, o volpe cade. ADRIANA Tutto diede sé stesso in mio domino. NUTRICE Così fe’ Giove, o semplicetta Europa, ADRIANA Sovente sparse un copioso pianto. NUTRICE Rompon dai duri sassi le fontane. ADRIANA Più volte sospirò sospir di foco. NUTRICE Da le più fredde felci il foco è tratto, ADRIANA M’astrinse la sua fe’, quanto si puote. NUTRICE Vi diè la fe’, che dar suole un nemico. ADRIANA Testimonii chiamò Giove e Giunone. NUTRICE Testimonii, che irar non lice in prova. ADRIANA Giurò quanti altri Dei vivono in cielo. NUTRICE Chi giura assai, sa, che di fede è indegno, ADRIANA La morte s’augurò, se mi tradiva. NUTRICE S’augurò quel, che ognun di noi aspetta. ADRIANA Le man mi prese, e le sposò d’anella. NUTRICE Ciò sposarle non fu, ma fu legarle. ADRIANA Ecco l’anel, che mi lasciò per arra. NUTRICE Anzi per premio di quanto ebbe, forse. ADRIANA L’oro mostra un amor fino, e perfetto. NUTRICE L’oro, dice: “Così Danae fu vinta”. ADRIANA Mostra il ritondo, amor, che non ha fine. NUTRICE Cosi vuol dir, principio unqua non ebbe. ADRIANA Mostra il Diamante inviolata fede. NUTRICE Mostra il Diamante indomita durezza. ADRIANA E con le braccia al fin mi cinse il collo. NUTRICE Fu l’ultima catena, onde t’avvinse. ADRIANA Poi mi baciò, come sua cara sposa. NUTRICE T’avvelenò, qual Lotofago, o Circe. ADRIANA Così di me si prese ogni possesso, Salva la castità, che ancor mi serbo. Così continuando, a ritrovarmi ogni sera ne viene cheto cheto. NUTRICE E che segno ti dà, quand’egli viene? ADRIANA Io discendo ogni sera all’ora usata Nel giardino a veder s’anco è venuto. E chi prima vi giunge, attende l’altro. NUTRICE Qual padre mai, qual madre, o qual marito Può promettersi figlia, o sposa casta, S’io, che costei sempre accompagno e guardo; Così da lei schernita oggi mi trovo? Chi menavi compagna a cotest’opre? ADRIANA La cameriera mia, morta stamane, Caduto sopra lei l’arco di pietra, Che parte sostenea de’ nostri tetti. NUTRICE Così foss’ella morta molto prima. ADRIANA Ora fidar non mi volendo d’altri; A parte chiamo te del mio secreto. NUTRICE Non di secreto più, ma di periglio. ADRIANA E perché il tuo consiglio anco mi porga. NUTRICE Vano è chiamare il Fisico, o il Chirurgo, Quando l’infermo ha già spirato l’alma. ADRIANA Tanto ci resta ancor, cara Nutrice, Che ben potrà cader sotto consulta. Tu, che sì spesso allor, ch’io pargoletta stava per traboccar, man mi porgesti; Porgimi ora consiglio, ond’io non cada. NUTRICE Sovra il passato non si dà consiglio. ADRIANA Dallo su l’avenir, che così chieggio. NUTRICE Persuaso voler non si consiglia. ADRIANA Nova farò forse a me stessa forza. NUTRICE Dico, che tu commetti un grave fallo Contra Dio, la cui mente è che rendiamo Ubbidienza a quei, che ne dier vita. Contra la nobiltà del regio sangue, Che te produsse in così chiaro lume; E da te prenderà la prima macchia. E il peccato è maggior tanto più chiaro; Quanto è più chiaro, et è maggior chi pecca. Contra il padre, e il fratel, cui soli tocca Darti la dote, e sceglierti lo sposo. Contra te stessa, che su’l gioco arrischi L’onore, il qual perdendosi una volta, Non mai più, non più mai può ricovrarsi. Rese Esculapio a Ippolito la vita. A Pelope li Dei. Ma a donna, mai La perduta onestà non rese alcuno. E non ti scusi amor, che amore ha solo, Quanto il nostro voler gli allarga impero. Credi, figlia, che un giovane, in cui more L’Amor, qual foco di paglia; un nemico, Ch’altro non può bramar, che tua vergogna. Un Prencipe, ch’altrui forza non teme. Un figlio posto in potestà del padre, Poi ch’abbia spento quell’ardente sete, che’l cor gli accese a la stagion più verde; Servar debba a una femina la fede? Mal credi, se ciò credi, e se ti fidi, Ch’egli è signor; ricordati, che a punto Sembra a l’ora al signor d’esser signore, Quando può la sua fe’ dare, è ritorsi. Promessa fatta a forza, non ha forza. Egli quasi prigion’ ne la tua terra, Anzi prigion de la bellezza tua; Non per molto osservar, molto proferse. Ma per molto impetrar, molto promise. E pur, che seco goda il suo diletto, Né si diletti palesarlo al mondo. E quando la promessa non ti attenga; Con chi osa sarai farne querela? Cui chiederai soccorso, o almen vendetta? La tua nutrice potrà pianger teco, Il mago consolarti, e il portinaio Andarti publicando per infame. Ch’esser non può, che anch’ei non sappia il tutto. Ma se dai segni uscendo, ti lasciasse Non pur macchiata, ma col ventre grave? Ricordati, Adriana, d’Adrianna, Che col nome non segua anco la sorte. La qual, poiché tradito ebbe il fratello, Tradita fu per premio dallo sposo. Poi che tratto ebbe lui del labirinto, Fu da lui posta in un maggior, senza altra Speranza di poterne uscir giamai. Ella concesse a Teseo fama, e vita. Teseo la fama a lei tolse, e per lui Non istette a torle anco la vita. Rammentati, Adriana di Medea. La qual, poiché a lo ingrato, infido Greco De l’aurea spoglia, e de la spoglia opima De la sua castità fe’ doppio dono, E di sé viva, e del germano morto; Sprezzata al fine, e spinta su dal letto, Che comprato s’avea cotanto caro. Adriana, rimembriti di Scilla. Che, poiché al Re di Creta offerta fece, De la purpurea chioma, e de la vita Del nocchio padre; al fin da lui respinta, E mutata in augel, soffre la pena De la grave, da lei commessa colpa. A noi col volo è nunzia di sereno: E a te sia con lo essempio consigliera. Sovvengati di Issipile, Adriana, Che, né con la beltà, né col piacere, Né con lo scettro, né col ventre grave Tener valse appo sé l’ amante infido: E se né per ragion, né per essempi Ti movi (che pur mover ti devresti) Movati almen l’autorità di questa Vecchia, che travagliato ha tante volte Per tuo riposo, e si spesso ha vegghiato Per lo tuo sonno. or fingi, che Latino T’ami, e sia quel fedel, ch’ambe vorremo. Che sarà poi? Che né il suo padre a lui, Né’l tuo a te lodar vorrà giamai Coteste lor malgrado occorse, nozze? Veggio quel che vuoi dir, vuoi dir, che spesso Il maritaggio è padre della pace. Più spesso, forse è padre della guerra. Lo sdegno ha messo troppo alte radici. Or con le spade in man ferman gli accordi, Scrivendo ai corpi lor col sangue i patti. Invece de la tibia maritale, Suonan le trombe, in cambio d’Imeneo, S’invoca Marte. In luoco di ghirlande, Si portan elmi, e per facelle, spade. In questo assalto al fìn convien, che i nostri O perdano, o rimangan vincitori. Se vincitori fìan, n’andrà Latino Cacciato quinci a gran fretta lontano, per più non riveder queste contrade, Se perderan, Merenzio fia signore. E allora non vorrà, che’l figlio sposi Colei, che avrà per prigionera, e schiava. Ma fingiamo, che’l padre di Latino A cotal parentado ancor discenda; Che farà il tuo si offeso, e disdegnato, E a ragion con Merenzio, e con Latino, E teco più, se ciò mai si sapesse? Chi farà ardito mai fargliene motto? Tu no. Che se’l rossor non ti accendesse, Di marmo avresti, e non di carne, il viso. Io no, che inghiottirei prima la morte, Che mai mandassi fuor questa parola. Altri no, per rispetto, che a tuo padre, E per odio che poi porta a’ Latini. Or facciamo che sian tutti concordi. Non pensi tu, che sempre il tuo Latino Avrà di te sospetto, avendo in mente Quanto con lui oprasti? Onde non nuoce Mai alla donna star dentro a suoi segni. Ma per recarti più vicini effetti, Quanti in periglio trai, cieca, non vedi. Metti prima in periglio te medesma. O ch’il tuo amante ti disnori, e lasci O che il padre, o il fratel ti trovi e ancida. Così perda la fama, e in un la vita. Metti in periglio anco il tuo amante. Ch’egli Trovato qui da’ tuoi, la notte solo, Ti sia su gli occhi orribilmente ucciso. Metti in periglio or la nutrice tua. Benché se per nutrirti io diedi il latte, Madre, la patria, e ‘l regno. Che Latino Trovando a suo piacer le porte aperte De la cittate, e del giardino; adduca Seco gente con armi, e contra il patto Sforzi le entrate, e la città soggioghi, Mandando allora il tutto a sacco, e a sangue. Mira quanti perigli, e quanti danni Tu sola porti, e ancor non v’apri gli occhi. Però dei alla piaga, mentre è fresca Proveder con rimedii apparecchiati, Pria che forza maggior prenda col tempo. Lasciando al tutto il mal concetto amore, Tenendo te, ne le tue regie stanze, E lasciando Latin ne le sue tende. ADRIANA O sventurata me, che dunque faccio, Quinci frenata da’ consigli tuoi, Quindi spronata dal crudel tiranno, Ch’è amaro, et è da noi chiamato amore? Perderò dunque la vita, e la fama? Lascerò dunque il mio amator più caro A me, che l’onor mio, che la mia vita? Per cui solo son’ io cara a me stessa? Trarrò l’amante mio dunque in periglio? Lascierommi morir priva di lui? Porrò la mia nutrice in questa nave? Porrò, per salvar lei, me sola in mare? Tradisco il padre mio, donde ebbi il sangue? Lascio il mio sposo, da cui spero il seme? Darò la morte a chi mi die la vita? Torrò me dunque a chi mi da sé stesso? Sprezzo chi meco ebbe commune il ventre? Lascio chi meco avrà commune il letto? Sprezzo colei, da le cui viscere esco? Lascio colui, nel cui cor vivo impressa? Tradirò il mio paese, dove nacqui? Lascierò il mio signor, nel cui cor vivo? Ahimè, che questi esserciti fan guerra Minor d’intorno a queste belle mura, Che al cor mio intorno i mei varii penseri. Ma io (per dirti il ver) cara nutrice, Non volea, che così mi consigliassi. Ben consigliata esser volea del modo, Che può darmi ottenuto il mio desire. NUTRICE Il consiglio, che punge il voler nostro Ne par malvagio, e quel, che l’unge, buono. Ma ciò toccava dal principio al mago. ADRIANA Insieme abbiam così composto ascolta: Egli mostrando, che Latino colpa Non abbia in questa guerra, e predicando Le sue virtuti, e i suoi regii costumi; Da indi innanzi si è ingegnato sempre Porlo in grazia a mia madre, e l’ha impetrato. Ella già l’ama, e i suoi be’ modi ammira. Fermato abbiam, quando ne paia tempo A queste nozze, usar l’opra di lei. Promette il mago ancor levar Merenzio (Non so già con qual’arte di eloquenza) Oggi dal fatto d’arme, anzi, che’n tutto Non sia battaglia più tra questi Regni. Far, che Merenzio vada, e che Latino, Acciocché sappia, ogn’or quanto qui segue, O conosciuto, o sconosciuto resti, O in Adria, o fuor (ma ben poco lontano). O sotto specie di trattar la pace, O di fornire altro negozio fìnto, Finché si posson maturar le nozze. NUTRICE Quel, che quando successo ancor non fosse Degno di biasmo, e di ditsturbo fòra, Quando è successo poi, convien lodarlo, Però (poiché tant’oltre andata sei) M’avrai seconda, ove m’avresti avversa, se’l ritrarti, o’l turbarti avesse loco, Ma riponiam queste parole in serbo. Ecco tua Madre, e più donne con lei.
[1.2] Orontea, Adriana, Nutrice.
ORONTEA Figlia, non sospirar, non han possesso Sospiri di timor ne’ petti alteri. Come i venti non l’han ne’ monti eccelsi Spero, mercè del ciel, che i nostri (a cui Pone arme giuste giusta causa in mano) Fian vincitori, e gli avversarii vinti. ADRIANA Qui, che sperar dic’ella, io temer chiamo. ORONTEA E i capitani loro il figlio, e ’l padre In rotta, in fuga, e forse a morte andranno. ADRIANA Dove crede assaldar, punge la piaga. ORONTEA E quei, che ad occupar la terra nostra Venner, l’occuperan coi corpi morti; O via fuggendo, e nel lor Lazio ascosi, Raddoppieranno al lor paese il nome. ADRIANA O de la fuga lor foss’io compagna. ORONTEA Pur quando il punto incerto della guerra cada contrario alle speranze nostre; E del resto facciam; la mano audace, Col ministerio del benigno ferro Ne scioglierà di servitù, e di vita. ADRIANA Voi volete prestar conforto altrui, Madre, e n’avete più d’altri bisogno. Come quegli assediati, che lanciaro Fuor delle mura al campo de’ nimici Il pane, et essi ne rimaser senza. Scorgo ben’io le luci, scorgo il volto. Scolpirsi fuor di simulata speme, Dentro vero dolor premere il petto. ORONTEA E qual madre fu mai barbara, a cui (Sentendosi in battaglia i suoi più cari, Il carissimo sposo e ’l dolce figlio, A cui si teme in lieta pace ancora) Non tremasse nel sen pauroso il core? ADRIANA A me duo cori aver fòra bisogno. Poiché per ambedue le parti io temo. Né so qual brami, o vincitrice, o vinta. Né se mi voglio vedova, o pupilla, ORONTEA Favella almen, si ch’io t’intenda, e possa Confortarti figliuola. ADRIANA Il male altrui Mal sana infermo dello stesso male. NUTRICE Come vi par, che segua il fatto d’arme, (Se pur il fatto d’arme è andato innanzi,) Reina? e qual successo omai possiamo Questo giorno sperar della giornata? ORONTEA Segno ancor non si scorge, onde si possa Ritrar certo timore, o certa speme. Il sa solo colui, che sempre il seppe. Nelle cui man la vita, e la salute. Nostra, e del nostro stato io raccomando. Deh signor degli essercitii, e de’ regni, Fa’, che i Latini, i quai nelle lor forze Fidati a’ danni son del regno nostro; Sian dalle forze tue cacciati, e vinti. Fa’, che’l sangue, ch’or piove in sulla terra. Per noi oggi produca oliva, o palma. Fa’, che queste mie man, che disarmate, E al ciel devote io levo a te pregando, Oprino più, che tante armate mani Degli avversarii nostri combattendo. Tu, che formasti in noi gli orecchi, e gl’occhi, Odi, e vedi quel danno, che n’afflige. NUTRICE Perché scendeste dalla rocca pria, Che si scoprisse il fin de la battaglia? ORONTEA Vinti da gran pietà questi occhi mei, Rifuggiro il mirar sì duro aspetto. NUTRICE Fin dove di mirar vi diede il core? ORONTEA Fin che appiccato il fatto d’arme vidi D’appresso sì, che più non potea sciorsi. NUTRICE Deh narratelo a noi Reina, ancora, E gli occhi nostri sia la vostra lingua. ADRIANA Dite madre vi prego, che ben dirlo Saprete voi; che tanta esperienza Del mondo avete, stata or tra le mura, Or nel mare, or ne’ campi, or ne le selve, come vi andò rotando la fortuna. ORONTEA Dapoi, c’oggi spirar di qua dal mezo- Dì, l’oziose ferie della guerra, E a l’ora destinata alla battaglia Prefissa già tra l’uno, e l’altro duce; Marte la porta sanguinosa aperse; E poi che’l mago (quanto a me ne parve) Fece opra con Merenzio di ritrarlo, E da lui riportò dura ripulsa; Tosto tocchi tamburi ai campi intorno Con fretta tanta, tal ribombo, e orrore Chiamarono i pedoni, e argute trombe Con tal tenor lontan, tanta rattezza Getta sella sonar, tutti a cavallo, A cavallo in un chiaro audace suono; Che al gran romor fremean l’aria, e la terra. E corni vivi per l’umano spirto Pur con egual virtù, tumulto eguale Faceano udirsi altrui con chiuso tuono; Cominciar da ogni parte a uscir le genti Trarsi appresso i cavalli, e vestir l’armi Con espedita, infaticabil opra. Come allor quando in aria si concipe O del Borea, o dell’Austro un grave spirto, Che prima usan confondersi le selve, E con socchiuso orror, mormorio muto Fischian le foglie, e fremono le fronde. Finché prende poi corso, e forza il vento, E l’animoso fiato apre, et allarga, Così le nostre, e le avversarie schiere, Faceano, mescolandosi in sé stesse, E ponendosi in punto alla giornata. E noi ascese in cima all’alta torre Sotto gli occhi avevamo ambe le squadre. Le nostre chiuse dentro la cittade, E le contrarie fuor distese al campo. Cui rimembra d’aver veduto mai Di qua, e di là su l’una, e l’altra riva D’un fiume reso torbido, e superbo Da strutte nevi, e da dirotte pioggie, Che mezo colmo ponga agli occhi muro, E stia per traboccar fuor delle sponde, E dilagarsi o all’una, o all’altra mano, Le ville intere starsi non volendo, Che dal canto lor rompa, il commun male? Imagini costui, che tale a noi S’appresentava a una rivolta d’occhi Lo spettacol de’ nostri, e de’ nemici; Tutti si cinser di ferrigna scorza, Che percorsa dal sol gittava un lume, Che da lungi abbagliava altrui la vista. Qual su le prime faci de la sera La funesta cometa apparir suole. E traendosi dietro un lungo crine Tinto di sangue, e sfavillando foco; Scote gli scettri, e turba lo corone. Tal ne scosse, e turbò l’armata luce, Luce, che rifuggir le luci nostre. NUTRICE Renda tal lume a noi giorno di pace. ORONTEA Allora l’uno, e l’altro capitano, Montato in un corsier, va per lo campo, E prevede, e provede ove bisogna Con gli occhi, con la lingua, e con le mani. E rammentando quanto poco sia Quel, che si è fatto in questo tempo per lo Adietro; torna innanzi, a gli altri, allora Còre aggiungendo, e per l’orme medesme A l’ora a gli altri innanzi; torna adietro. Raggira il campo atorno, e torna, ov’era; Qual rondinella, che a l’amato nido, Depositario de’ suoi dolci pegni, Vede appressarsi il predatore, e mossa Da sollecito studio, affetto pio, O volge intorno il mal difeso parto Or su, or giù per l’empia casa geme. Non altramente il mio signore, e l’altro Faceano, e ascesi al fine in alto poggio, Agli esserciti lor raccolti intorno Fecero un parlamento militare, Che udirsi non poteo però da noi. NUTRICE O rispondan gli effetti alle parole, ORONTEA Io mi ricordo sol che ’l mio signore Con mano, orando, ne mostrò a soldati. I quali intenti, e taciti ascoltaro. E poiché giunse al fin, lesaro un grido, Che da ogni cavo speco Eco rimise. Gridaro “Andiamo” e “diamo”, Eco soscrisse. NUTRICE Poaccia al ciel, bella ninfa, che risuoni Così le voci de le gioie nostre. ORONTEA Come talora avvien, che la villana Adduce al tetto ceppi, pur non tolti Da la nativa madre, ancora pieni Le verdi membra d’amoroso succo, (E soffiando, fa forza a farne foco) Che fuma prima un pezzo e poi che uscito, E digesto è l’umore; in un baleno Scoppiano in chiara fiamma, e ’n larga vampa. Così le squadre udendo il mio signore, Raccolsero nel petto a poco a poco Ardire, e sdegno, e ’l tutto poscia a un tratto Essalar fuori, e fuor chiesero uscire. NUTRICE O fia il numero, e’l grido al tornar pari. ORONTEA Tutti n’andar sotto le insegne loro Alzate, e tremolanti all’aure fresche. Come al cader del Sol l’api tornando A casa carche di sudata preda Ciascuna si ricovra al suo ricetto. Il Prencipe mio figlio fu lasciato Dentro a guardia, e difesa delle mura. NUTRICE Così non abbia, che difender oggi. ORONTEA Furon tirate in ordine le schiere Sì, che alcun non uscia fuor del suo segno. Qual dotto agricoltor negli alti monti Dispon le viti in disegnato quadro; E col compasso lor prescrive il filo. E ad ogni pianta parte giusto l’inter- vallo, perché lo spazio egual comparta Della gran madre il succo al nutrimento, La terra a le radici, e l’aria all’ombre. NUTRICE Tornin le schiere nostre in forma eguale, E l’altre sparse poi si traggan dietro. ORONTEA Ecco aperte le porte, et ecco fora L’essercito a l’essercito nemico Incontro armato d’aste, d’archi e spade. Quando i Giganti per pigliar le stelle, E metter legge al ciel fatto prigione, Givan ponendo sopra monte monte. E un di lor venia di qua col Pindo Su gli omeri pien d’arbori e di selve; E l’altro li venia col Pelio incontro; (Come talor dipinti io gli ho veduti) Potevano sembrar queste due fronti D’esserciti, che l’aste alte portando, Venivano a incontrarsi a meza strada. Una nube di polve alzossi al cielo, E ’l Sole, e ’l giorno chiuse a tutti gli occhi. Indi una notte folta di saette Ratto pendé, su l’uno e l’altro campo. La qual cessata, e aperto l’aere un poco, Sembraro estrici allor tutti gli scudi. L’uno da l’altro essercito lontano Era, quanto va a punto una saetta. Ma questo tratt’a un tratto via sparire Vedemmo, et affrontate già le schiere. Come s’alcun duo fochi a un tempo accenda L’uno a faccia dell’altro d’ambo i capi Di valle che ’l valor suo tutto spenda In folta messe d’infeconde canne. La sparsa fiamma arde lontana alquanto, Ma poi tutta in un punto aggiunta in uno Di duo, diventa in modo un foco solo, Che l’un da l’altro più non si discerne. Così parver gli esserciti confusi. NUTRICE E confusero in noi timore, e speme. ORONTEA L’aste allor rupper risolute in pezzi, Che tanto verso il ciel volaro in alto, Che a pena aquila arriva a tanta altezza. E mille per contrario uomini allora Giù nel piano avresti visto cascare. Tratte in un tratto mille spade foro, Che balenando in alto ferian mosse Co’l taglio i corpi, e con la luce gli occhi. E facean quell’aspetto di lontano, Che fanno in ciel le stelle, o in aria i lampi La siate su’l principio de la notte Serena, che rio tempo, o caldo aspetti. NUTRICE Segua tal lampi a noi giovevol tuono. ORONTEA Poi che furon gli esserciti meschiati, Vedeansi varie imagini di morti, E di colpi s’udiva un suono eterno. E alcune mal concordi, e fioche grida Di color, che morian d’ambe le parti. Ond’io più non potendo sostenere L’orribil vista, me ne son partita. NUTRICE E noi per questo siam rimaste al basso. ADRIANA Madre, vedete di mio padre un messo, Che affrettandosi, a noi dritto ne viene. ORONTEA Ahi, che smarrito egli mi sembra in faccia Non è tal faccia di letizia segno. E su le membra par, ch’io tremi tutta. Deh non mi abbandonar, signor del cielo.
[1.3] Messo, Orontea, Adriana, Nutrice.
MESSO Qual fia sì crudo cor, sì ingrata lingua, Che dar possa a la nostra gran Reina Nova tanto severa? E pur tu quello Dei esser. Poiché ad esser ti costringe L’uom, che di sol costringerti ebbe forza. Di tante grazie, ch’ella m’ha impetrato Con la sua lingua fortunata, e saggia, Mal tu le renderai, mia lingua, merto. S’io doveva recar tal ambasciata, Perché non nacqui io muto? Se gran premio Attende quel, che grate nove apporta. Qual gastigo attend’io da la Reina? ORONTEA Non odo altro che ’l suono, e tremo a udirlo. Di chiedere, e di udir temo, e desio. MESSO Ecco, che’n su la porta del palagio La infelice m’aspetta, d’udir vaga Quel, che l’ha da accorar, tosto, che l’oda. Qual proemio farò? Con che principio Le comincierò a dir la sua sventura? ORONTEA Ahimè, che ’l cor di gran dolor presago A sé richiama il sangue, e ’n sé si stringe; In vista d’uom, che grave colpo aspetti. Deh messo affretta insieme il piè,e la lingua. Qual nova mi rapporti del figliuolo, E dello sposo mio? MESSO Vi apporto nova Qual si puote miglior, Sacra Reina. Che guadagnato la vittoria abbiamo. ORONTEA Tu, che’l ben mi donasti, donami anco, Sommo Dio, stil, con cui renderti possa Grazie de l’una, e l’altra grazia avuta. MESSO Ma intero un ben non venne mai. Trovossi Sempre in mezo alle rose qualche spina. ORONTEA Ahimè, che tu m’ancidi. Dunque ancora Non fornisti di dir? Che v’è di male? MESSO Udite pure. ORONTEA E tu spaziati tosto. Poi che aspettato stral, mentre s’aspetta Trafige molto più, che quando giunge. MESSO Mentre più ardeva la battaglia, apparve Fuor del bosco un’incognito guerriero, In candid’ arme, e sconosciute insegne. Che n’andò dritto al Prencipe Latino Sfidandolo a battaglia singolare. Il Prencipe accettò la giostra tale Che arrestar fece l’uno e l’altro campo A riguardarla. Andò la pugna un pezzo Di qua, e di là sopra bilancia pari. Al fin Latino alzò la spada, e diede Al cavalier non conosciuto un colpo Sì smisurato e crudo, che gli aperse Lo scudo e l’elmo, e scendendo nel capo, Li fece una profonda, e larga piaga. E sceso per troncar la testa affatto Al campion de la selva già caduto; Poi che slacciato gli ebbe l’elmo, e mostrò A noi l’amato viso; là traendo Molta furia de’ nostri; suo mal grado Li fu levato vivo delle mani. ORONTEA Poiché ha scoperto il viso, e a voi è noto; Fa’, che anch’io riconosca il cavaliero. MESSO Questo e il punto Reina, questo è l’agro, Questo è l’amaro calice, che a bere Io v’appresento. Il cavalier del bosco Era il Prencipe nostro, il vostro figlio. ORONTEA Ahimè, che dici? MESSO Quel che dir mi spiace, Come prima mi spiacque anco vederlo. ORONTEA Non rimas’egli a guardia delle mura? MESSO Rimase. Ma sentendo uscito il padre; Né potendo temprar l’ardente spirto, E ’l desio giovenil di far battaglia; Commesse a un’altro il loco suo. E vestito D’armi mentite, e peregrine insegne, Per una porta adultera uscì fuori. E preso, e fatto un lungo e vario giro Per boschi, riuscì dove sì male Riuscir li dovea l’assunta impresa. ORONTEA Dunque, ahi lassa, colui, che tu mi narri Sì maltrattato, è il mio figliuolo? MESSO È desso, ORONTEA Ah empio ferro, onde imparasti l’arte Di far duo colpi a un tempo, il capo al figlio Ferire, e’l cor traffigere a la madre? Dunque ne la commun vittoria, e gioia, Io sola piangerò, ridendo gli altri? MESSO Pur troppi avete nel dolor compagni. E la vittoria sanguinosa costa Pur troppo caro prezzo et è dolente Forse non meno al vincitor, ch’al vinto. ADRIANA O speranze di vetro. O fratel mio. ORONTEA Ah spietato omicida. Ah reo Latino. Piaccia al ciel che tua madre (s’hai pur madre) Senta quel che sent’io materno affanno. ADRIANA Ciel, non udir questi dannosi preghi Ma fa’ che l’ dolor nostro in gioia torni. NUTRICE Ecco, Adriana mia, quanta ragione Ebbe colei, che ti lattò fanciulla Di non voler lattar le tue speranze. ORONTEA O occhi di diamante, dunque sète Aridi sì, che non versate tante Lagrime per lavar l’acerba piaga, Quanto versa dal capo il figlio sangue? ADRIANA Stata foss’io nel mezo tra la spada Del feritore, e’l capo del ferito, Facendoli del mio pietoso scudo. O per cotal cagion morir felice. ORONTEA Ma segui, e dimmi omai, cortese messo, In quale stato, e’n qual loco ei si trova, E quale speme abbiam de la sua piaga. MESSO Vedendo i nostri il lor Principe carco Di sangue, si infiammaro a la battaglia. Come leone, il qual quando si vede Insanguinato, allor ruggendo fero, Rodesi, e corre incontro al ferro ardito, E divenuto più crudel, si sforza Di vendicar la sua con l’altrui morte. Prefero tanta audacia, e tanto sdegno, Che poser tosto in rotta I miseri Latini, Troncando lor le forze E li cacciaro in modo, Che tutti universalmente fuggirono. Sbandati scompigliati, e fracassati. ADRIANA Vittoria rea, che ’l vincitor fai mesto. MESSO Al governo io restai di vostro figlio, Che intendendo la strage de’ nemici, E la salute sua già disperata, Da fisici, e chirurgi, che avea intorno; Levando al cielo, e a Dio gli occhi, e le mani; In mestissimo suon grazie li rese; E disse allo Signor: “Poiché ti piacque, Che Latino, e la Parca a un tempo il ferro Alzassero a troncar questa mia vita; Grazie ti rendo. Che quantunque i’ muoia, Veggio del mio morir però vendetta. Indi ti prego, che gli anni dovuti Al corso natural, che perderò Io, a quei del padre, e della madre restino Aggiunti, che non men mi fian vitali: Tu, padre mio, perdonami l’errore, Che feci giovanilmente poi ch’io E conosco, e confesso, e provo, come L’uscir de le tue leggi, e de le mura, Mi fece parimente uscir di vita. Prestami un’altra grazia; sepelisci Il cadavero mio fuor de le mura, Dov’apunto la giostra si commise. Perch’io, che vivo dentro, non le volsi Guardar, le guardi fuor sempre ora morto. Tu, mia già lieta, ora dolente madre, Armati meglio il cor contra l’affanno, Che ’l capo io non mi armai contra Latino. Tu, mia cara sorella (se mai caro Avesti il compiacermi, e pur l’avesti) Non ti legar con matrimonio altrui, Se non a chi ti dia per sopradote De le tue nozze il capo odioso, e reo Di colui, ch’è cagion ch’io t’abbandoni. Torna Merenzio, onde partisti, e ’nvece Di guadagnarti un’altro regno; perdi Con l’essercito tuo l’unico figlio. Ma tu, Latino, c’hai tinte le mani Ancora del mio sangue, piaccia al cielo, Che dal mio sangue nasca la tua morte. Poi cada, e muoia in mezo a tuoi nimici, E procuri tu stesso il tuo morire, E sii sepolto in peregrina terra.” ADRIANA Ahi, che non posso udir si meste note Del mio caro fratel. Ponle in silenzio. MESSO Questo diss’egli, e più parole assai, Le quai mi commandò ch’io ridicessi. In tanto morte andava scolorando Il già si bello e colorito viso. E ’l colore, e ’l calor venian mancando. Come purpureo fior, che’l curvo aratro Abbia passando tronco, il qual perduto le sue vaghezze, e ’l bel colore smorto; Al fin venendo meno, Cade alla terra in seno: Or cosi era labile, e vicino A morte il figlio vostro quando il padre Giunse carco di spoglie di nimici. E se gli pose sospirando sopra. Chiese il Prencipe allora ambedue voi, Per mirarvi, e morirvi in fra le braccia. Ma ricusando il Re di far chiamarvi; Anzi ordinando espressamente a tutti, Che cotal morte a voi celata fosse; Pregommi occultamente il figlio vostro, Che tosto, che potessi, io vi avisassi Il tutto. Il che li fu promesso. Et egli A la promessa i languid’ occhi aperse, Gravati già da la propinqua morte. Poi li rinchiuse in sempiterna sera. ORONTEA Dunque di questo cielo il dolce lume Non fère più negli occhi a mio figliuolo? MESSO Del corpo no, se n’è ben gita l’alma Dove i suoi occhi un più bel Sole illustra. ORORNTEA O figliuol, tu sei morto, et io son viva? Ah cruda man, che’l figlio ancidi, e crudo Più, poiché non ancidi anco la madre. Ti fa crudele uno omicidio, e dui Ti farebbon pietosa. O figluol mio. Ma come mio, s’io t’ho perduto? Ah figlio, Che ai parenti serrar dovevi gli occhi, Come senza lor chiuderli ten vai? Anzi lor li rinchiudi in notte, e ’n pianto. Può essere, o dolor, che tanta forza Non abbi nel mio cor, quant’ebbe il ferro Nel capo di mio figlio, e non mi uccida? Che faccio di questi occhi, che non denno Mirarti più? Che fo di queste orecchie, Che più non t’hanno a udir? Di queste braccia, Che non ti abbracceran mai più? Di queste labra, con cui baciar più non ti debbo? Più preste fur le man dell’omicida A spegnermi il figliuol, che voi, mie mani, A batter questo mio rugoso petto, A stracciar questo mio canuto crine. Ecco, Adria, caduto il tuo sostegno, Il terror de’ nemici, e’l pregio nostro. ADRIANA Tu, fratel, fosti messo a custodirne; E di custodi tu bisogno avevi, Che dietro non corressi a la tua morte. MESSO Io non mi meraviglio, che tal morte Sia da voi pianta, che Latino stesso La piange sì, che confortar nol puote, Né’l padre, né quanti altri son con lui. ORONTEA Vittoria, al vincitor peggior, ch’al vinto, Che se così vinciamo un’altra volta, Abbiam perduto. Che rileva avere Salvato il Regno, e perduto l’erede? O figliuol, fu minor la doglia assai Del partorirti, che l’affanno d’oggi. Ma che dirò di me, c’oggi ti cinsi Dell’armi, onde sì mal fosti difeso? NUTRICE Et io, misera donna, ti lattai, Prencipe illustre, a crudeltate, e a gloria De tuoi nemici, con tante fatiche In tanti anni? Noi dunque t’allevammo, Acciò, che in un’instante andassi poi A cader sotto la nemica spada? MESSO Diemmi anco il figlio vostro la camicia (Che si spogliò pria che tornasse il padre) De le man di costei vago lavoro, Lacera tutta, e del suo sangue aspersa, E mi pregò, che dopo la sua morte Io la rendessi a voi, che la serbiate In eterna memoria di vendetta De la sua morte, e di non far mai pace, Né tregua con Latini. Ecco, la spiego. ORONTEA Ah cor mio, non ti spezzi a quest’ aspetto? ADRIANA Lassa, quand’io formai questi trapunti, Con l’ago mio medesmo il cor mi punsi. ORONTEA Quanto caro mi fosti, o nobli velo, Mentre copristi le leggiadre membra. Or tanto più, m’affligi, e mi rincresci; Né ti posso mirar, non le coprendo, U lasciasti colui, ch’oggi vestivi? Orribile tintura, empi lavori, Che traesti dal sangue, e dalla spada. Ti serberò ne l’opra a me commessa MESSO Tutti i soldati, poi che vider morto Il lor Signore, in man del Re giuraro Con solenne, e terribil giuramento A Latino la morte, e perseguirlo Per tutto il Regno. ORONTEA Anch’io giuro il me- desmo ADRIANA O sperar nostro, come sei fallace. NUTRICE O creder nostro, come ne lusinghi ORONTEA Or dov’è il mio figliuol? MESSO Lo sposo vostro L’ha fatto sepelir fuor delle mura Nel loco, ov’egli si lasciò, morendo. ORONTEA O misera Orontea, condotta a tale, Che a la terra invidiar costretta sei; Poi ch’ella abbraccia il figlio a te negato. Dassi il figlio alla madre universale. E alla madre propria si contende. Nove mesi il portai, sì dolce peso, E un’ora oggi tener nol posso in braccio. Voglio andar a trovarlo, a trarlo fuori Del sepolcro, e baciarlo, e pianger tanto, Ch’io vi perda le lacrime, o la vita. MESSO Se pur gite, Reina, almen mostrate, Che altronde udiste il suo morire ORONTEA Andiamo. Ahi, ch’io cado. Ahi, ch’io moio, aiuto! Ancelle! NUTRICE Deh che facesti? Ecco la mia Reina Fuor di sé. Conducianla tosto dentro. ADRIANA Infelice Adriana, se tua madre Piange tanto la perdita d’un solo; Tu che far dei, che duo perdesti a un tempo? Anzi tre. Che perdesti anco te stessa. NUTRICE Nel perder de lo sposo hai questo bene, Che puoi dolerti almanco apertamente, E sotto vista d’un, pianger un altro.
CORO
Qual vive in acqua, o in terra Sì selvaggio animale, Che potesse ascoltar gli amari lutti, E ’l gran duol, che si serra Nel palagio Reale Con riposato cor, con occhi asciutti? Ivi s’accolgon tutti Gradi di gentildonne In angosciosi gesti, e ’n nere gonne; E fanno alti lamenti Che a fender vanno i venti, Mogli, madri, e donzelle, Con grida, ch’ a ferir saglion le stelle De la giornata d’oggi Si saguinosa, e fera Piangon dirottamente i mesti casi. Dove per piani, e poggi Nel fiume, e alla rivera Sono i più cari lor morti rimasi, Piangon gli acerbi occasi Di tanti uomini illustri, Bramati, fin che Febo il mondo illustri, Hanno un conforto solo, Che son molti nel duolo. Che al misero è gran bene, Altri compagni aver nelle sue pene. Straccia le bionde chiome La vedova consorte, Battendo a torto l’innocente petto. Chiama l’amato nome. Di colui, ch’ empia morte Le fura, interrompendo ogni diletto. Piange ’l diserto letto, I pargoletti figli, Privi d’anni, d’aiuti, e di consigli. Al bel seno stringendo, Che per altro piangendo Del lor danno ignoranti, Accompagnano a caso i mesti pianti. Stassi da un’altra parte La sconsolata madre, Scossa in un’ora della dolce prole. Dove Bellona, e Marte La battaglia e le squadre Essecra con pietose, aspre parole. Appresso lei si duole La tenera sorella, E l’estinto fratel per nome appella. Sparsa pel collo il crine Tien le sedie vicine Piangendo il morto padre La figliuola con note amare, et adre. Ma chi non si dorrebbe, La strage contemplando, Che l’aria infetta, e d’orror empie il piano? Dove’l Tartaro crebbe, Al regio mar portando Tributo assai maggior col sangue umano. Dove vien di lontano Da spilonche, e da rupi Turba di cani, orsi, leoni, e lupi A una funesta cena, Di cadaveri piena, Che tutto ’l campo preme Di vinti, e vincitor confusi insieme. Non è selva a lo’ ntorno, Che non mandi gran frotte D’augelli, a questa abominosa mensa, Così gli uomini il giorno, E le fiere la notte Sfogan nel sangue human la rabbia immensa, Cinzia riguarda, e pensa, Fuggir da questo cielo, E le stelle, tirarsi agli occhi un velo, Per non mirar vivande Sì brutte, e sì nefande. E lacerati quivi Dai morsi i morti, e dagli affanni i vivi. Del sangue altrui, e nostro Il terren caldo, e ebro Pon tema, e doglia in chi passa, o dimora. A questo orribil ostro S’aggiunge il fioco, e crebro Gemito di color, che’n pene ancora Non son di vita fora. Chi dunque non si lagna, E’l pianto universal non accompagna? Chi (piangendo altri) è in riso. Di sé tien poco avviso. Uom non è chi trar puote Nel commune dolor secche le gote.
Il fine del primo Atto.
[2.1] Latino solo.
LATINO Con che faccia, audacissimo Latino Andrai innanzi a la tua Dea, del suo solo e caro fratel fresco omicida? La man del sangue ancor vermiglia, e calda Di quel che è nato da uno stesso ventre, E lattato con lei da un petto stesso Ardirai porle al collo, o porle in seno? A chi di tanto ben la spoglia è carca, Contra ogni creder suo di tanta noia Credi, sciocco, che dar vorrà piacere? Stimi tu di trovarla sì pietosa, che se t’avrà ben per l’adietro amato, Or l’amorosa fiamma in fiamma d’odio, E di sdegno non cangi, come spesso Cortese foco, a cui lieta famiglia Si scalda, e coce gli opportuni cibi, Si cangia in tanto ardor, che tutta abbruccia La casa, e ciò, che vi si trova dentro? S’ora te le appresenti non fia a punto Un rinovare in lei l’affanno, come L’omicida appressandosi a l’ucciso Dal cadavero uscir costringe il sangue? Credi tu, ch’abbia voglia la infelice, La sconsolata giovane d’uscire A udir parole, e prattiche d’amante, Anzi crudel nemico, a chiari segni Ella, che stassi a pianger con la madre Colui, che amar dovea, come sé stessa? Ma fingi, ch’ella a suo costume venga. Con qual cor, con qual’occhio mirerai La tua luce di tenebre vestita, La gioia, e’l riso tuo sommersi in pianti. Lo tuo conforto sconsolato, e mesto. Lo tuo ben di te schivo, la tua speme Disperata, e le tue fatali stelle Girarsi dal tuo aspetto in altra parte? Potrete occhi mirar turbato il volto D’ira, e di doglia, minaccioso il ciglio Del mio bel Sole, e lacrimosi gli occhi? Potrete, orecchi, udir gli accenti irati De la mia cara Donna allor quand’ella Queste mi dica, o simili parole. Quando pur di parlarmi il cor le soffra? “È cotesto il bel premio, ingrato amante, Che tu mi rendi? Invece de la vita, Ch’hai da me, dare al mio fratel la morte? Bel pegno certo delle nostre nozze. Invece dell’amor, ch’io ti portava, Odiasti, et uccidesti il mio germano. Ma lui non uccidesti, anzi l’amore Ver te della sorella. Con quel colpo Tronchi il filo vital del fratel mio, E l’amoroso laccio del mio core.” Ciò dirà ella, e più, come alla lingua sua somministreran l’odio, e l’affanno. E tu vuoi aspettar questa tempesta, Questo tuon, questo folgor, che t’opprima? Eleggi prima volontario essigilo. Torna più toso a dietro, e tu medesmo Fa’ vendetta di quel, che ’l tuo cognato Ti toglie, e annoia la tua cara donna. Su ’l sepolcro di lui scanna te stesso All’ombra del fratello in sacrificio, Al cor della sorella in medicina. Onde Adriana tua su ’l monumento Non lacrimi il fratel, che te non pianga, Deh se morir pur debbo, imitar voglio La Fenice, la qual morir dovendo, Nel suo sole affissar vuol prima gli occhi, Benché posta in quel sol sia la sua morte. Ah non ti por, Latino, a tal periglio, Proverà troppo dispietato influsso Nel capo tuo da la sdegnosa faccia. I gesti, i detti suoi, son tutti vita. Mal credi, se ciò credi, fìan mortali. Mai, Adriana mia, creder non voglio, Che giudice sì ingiusto, e sì crudele Sii, che dar vogli contra a un reo sentenza Senza prima ascoltar le sue ragioni. Parte alle parti il giudice gli orecchi. Dunque da poi, che per l’usata porta Sì facilmente entrai nella cittade, E aperto ritrovai questo giardino, Com’è l’ordine dato, e par che i raggi Loro per me celar, celin le stelle, Attenderò, che fuori esca Adriana. Poiché a quest’ora sempre esce la notte A veder s’io ci son, com’è composto Tra noi. E par, ch’io senta aprir la porta, La qual meglio chiamar posso Oriente. Ecco spunta il mio Sol cinto di nubi A mezzanotte. Mira, come gli astri Dan loco al lume suo smarriti in vita. Come stan l’aure a vagheggiarlo intente. Felice quel (rispetto a me) che aspetta. Ador ador la pena capitale.
[2.2] Adriana, Latino.
ADRIANA Esci tu poi ancor quand’abbi tempo. LATINO Riguardando io quel puro, e fermo affetto Che a servirvi m’inchina, alta signora, Giurato avrei per quel più riverito Nume da me qua giù (che sète voi) Che non potesse in tempo, e in loco alcuno Succedere accidente, donde io avessi A scusarmi con voi d’error commesso. S’error commesso si può dir l’errore, Che si commette fuor d’ogni scienza. Or grazie a Dio, che ’l mio giudice (ancora, Che di parte, e di giudice persona Or sostenga) non vuol tener di parte, Ma di giudice ufficio. Né dannarmi Solo, ma scende a udir le mie ragioni, Che inappellabilmente in lui rimetto. E quand’io debba richiamarmi, all’alma Pietà, di lui medesmo sia il richiamo. So, che quantunque il caso del fratello Non v’apporti quel mal, che forse parvi, (Anzi la dubbia palma a vostri piega L’amor diviso de’ parenti vostri Per duo rivi in voi sola or tutto accoglie, Di infanta vi sublima a Principessa, Lasciando voi di questo Regno erede, Le nozze vostre agevola, et affretta) Pur la sua morte (ancor ch’ei l’abbia compra) V’affligge, vi inacerba a far vendetta De l’ucciso, e dar pena a l’omicida. Ma se udirete il mio discorso, spero Mostrarvi aver quella ragion, che voi Più desiate, e non credete, ch’abbia. So che’l caso vi è noto. Onde ridirlo Non convien, ma toccar sol le difese. De l’entrare in battaglia io non mi scuso, Poi che una i’ convenia far di due opre. O trar da la battaglia il padre in pace, O quinci esser da lui tratto in battaglia. Onde ritrar non ne potendo il padre, L’uno effetto di duo far mi convenne, O accompagnarlo, o stando fuor, mostrarmi O figlio iniquo, o cavalier da poco, O prencipe di voi, di stato indegno, O nemico a mio padre, o amico a voi, E ciascun di tai segni era mal segno. Oltra che la giornata esser non debbe Senza me dove i nostri combattendo Restar doveano, o vincitori, o vinti. Se vinti, aitato avrei le schiere nostre, Anzi le schiere, che già vostre sono. Se vincitori, allor con lor sarei Nella cittade entrato, e avrei difeso Dal furor militar la cara sposa. E se dicesse alcun, ch’io son prigione Vostro, e far contra voi guerra non posso, Dico, che prigion vostro è solo il core, E che’l cor contra voi non fe’ mai guerra. Perché ’l cor mai non fu dov’era il corpo. Or discendiamo a quel, che via più importa. Il fratel vostro sconosciuto venne A provocarmi, et a combatter meco. Io, che doveva far? Fingiamo ancora, Che ’l conoscessi. Il che però san tutti, E sapete anco voi, che non fu vero. Insegnatemi voi, fingete voi, Signora, di trovarvi in loco mio. Dovea lasciarmi uccidere, et a voi Uccidere il marito, e voi insieme? Che s’io misuro ben l’animo vostro Col mio, potea sperar, che la mia morte Fosse per generar la morte vostra, Come dal vostro il mio morir verrebbe. E s’io lasciava uccidermi, potendo Difendermi, e difender non volendo, Non era uno ammazzar me stess? Io allora Non era ancor de l’omicidio reo? Né pentirmi potea, com’ora posso. E voi, e me perdea. Né l’omicida Però forse da’ mei campato fòra, Men teneri di fe’, che de’ lor Regi. Dunque senza germano, o senza sposo Vi convenia restar. Se voi più pia Sorella sète, che mogliera; io certo Son, che’l fratel si lascia per lo sposo. Se ad ammazzarmi nol mandaste voi Pentita a esser mia, vaga di sciorvi. S’io ferìa (lui ferendo) il vostro sangue, Ei feria, (me ferendo) il vostro core, (Se finto non è quel, che mi giuraste.) Dovea fuggire, o rendermi per vinto? Io, che debb’esser vostro, e a voi congiunto In una carne, debbo senza macchia Serbarmi (come voi) per vostro amore. Gli sposi avvinti in un nodo, non ponno Senza l’altro macchiar, macchiar se stessi, L’onore oltre la vita esser de caro, E ’l tutto altrui doniam da questo in fuori. Mentr’io giostrava con colui, e avea Pensier, che voi la giostra rimiraste, Avrei potuto sotto gli occhi vostri Mai risolvermi a rendermi, o a fuggire? Tolga Dio, che altri mai, che voi mi vinca. Che a voi sia tal onor commun con altri. S’io l’uccisi, il valor da voi mi nacque. Dunque a voi, non a me convien la pena Di tal colpa, se pur pena ricerca. Se dar volete pena a chi l’uccise, Datela a voi, che a me la vita deste. E quel, che date, mai non ritogliete. Punite voi, le cui bellezze, vago Mi fer di vita, e alla difesa pronto. O perdonate a voi stessa il mio fallo. Se dar volete pena a chi l’uccise; Datela a lui, che uscì fuor delle mura Contra il voler del padre, contra il voto De’ suoi, e contra ogni ragion di guerra. Pose ’l tutto in periglio manifesto, Gettando in altri il peso a sé commesso. Onde s’avesse ancor vinto, dal padre Meritava gastigo aspro, e mortale. Né sentendosi polso atto alla giostra Corse a sfidarmi, pien di mal talento Per ammazzarmi, ond’ei sé stesso uccise. Venne egli stesso ad incontrar la morte: Se dar volete pena a chi l’ha ucciso, Datela alla sua spada, che sì male Il difese. Ma ciò (cred’io) successe, Che sendogli da voi forse oggi cinta Intendendo l’amor, che mi portate, E me riconoscendo, non mi volse Ferir, bastando esser da voi ferito. Né voi già de l’acciar men pia sarete. La legge natural vuol, che ciascuno Contra il morir si scherma, e si difenda. Quinci a ciascun natura arme concesse, A chi l’unghia, a chi ’l dente, a chi’l veleno, A chi ’l corno, a chi ’l rostro, a chi la spada. Che fa il padre, il Re vostro, se non ch’egli Sé medesmo difende, e le sue genti? La legge scritta vuol, che si ribatta La forza con la forza, e lo assalito Spenga lo assalitor senza gastigo. Sì che la legge di sua man la spada Contra gli offenditori offre agli offesi. La legge de la guerra vuol, che’n giostra Ciascun s’aiuti, e l’avversario offenda. A l’uom dato è difendersi da morte. E perché questo non può farsi senza Offender quel, che darla altrui si sforza; Però l’offesa in sua difesa è giusta. Ma di tante difese in mia difesa Nel caso del fratel vostro vorrei Essere affatto privo, quand’io avessi Lui conosciuto, e conoscendo ucciso. Ma conosce ciascun, ch’io noi conobbi. Dal loco non potea saperlo. Uscìo Fuor de le selve da contraria parte. Non poteva dal tempo argomentarsi. Già sapea, che restato egli era in casa Dalle spie, che mio padre ha in questa terra. Le insegne non potean manifestarlo, Che peregrine sono. E se co’l padre Fosse corso a giostrar, potea dal padre Esser così, come da me fu ucciso. E voi s’ivi il vedeste (e nol mandaste) Gli auguraste la morte, e la otteneste. S’io lasciai di ferir le genti vostre, Credete, che’l fratel vi avessi estinto, Quando qual fratel vostro uscito fosse? Benché non fu, ma vostro, e mio nemico. Non che un vostro fratel, ma qualunque altro Avesse ivi invocato il vostro nome. Nel nome vostro avria trovato scudo Miglior, che quello, ond’egli era coperto. Né quando io lo ferii, né quando ei cadde Per lui sorsero i vostri. Che né i vostri Il conoscean, se non quando scoperto Videro il viso smorto, non già smorto Sì, che più smorto allor non fosse il mio. E come una sincera posta al specchio D’una corrotta si corrompe, io allora Quella doglia sentii, ch’egli sentiva. A me quivi augurai l’asta d’Achille, A’ suoi l’uso de l’api, a lui d’Anteo. E se ’l mio sangue fosse stato empiastro Atto a tenerlo vivo, e a farlo sano, Possa io (com’ei perdeo) perder la vita, Oppur la grazia vostra, (l’ che più stimo) S’ allora ivi svenato io non mi avessi Con questo brando mio di vena in vena. Né dicano color, che me l’han tolto Vivo di mano, averlo tolto a forza. Ch’io quella vita a lui (quando il conobbi) Donai, che voi a me prima donaste. Né dica alcun, ch’io trapassassi i segni (che schermirmi tra assai senza ferirlo) Che ciò non s’usa. Quando il riconobbi, Posi tosto nel fodero la spada, E fui per farle fodero del petto. Del che, se testimoni produr’ voglio, Le mie produco, e ancor le squadre, vostre. Tu, ombra dell’ucciso, or qui ti mostra, E l’innocenza mia meglio difendi, Che già non difendesti la tua vita. Ma il maggior testimonio è l’argomento Che tra voi far potete, e così dire: L’amor del mio Latino è vero, o finto. Se vero; vero è ancor quant’ei mi dice. Se finto; qual cagione ora il costringe A venirsi a scusar ne la mia terra, Né le mie forze con mortal periglio, Di notte, sol, da’ suoi lontano, poi, Che da me non ricerca alcun diletto? (Ch’altro or da voi, che’l vostro amor non voglio) Ma, che più? Se ’l mio core in mano avete, Perché ’n lui non leggete i mei penseri? Queste ragioni, non pur presso a voi, Ma peso avrian presso alla madre vostra, che voi vinca in amar, colui, che giace, Da voi vinta in amar costui, che vive. Ma se dell’opra mia da me commessa Al buio, a caso, in vostra, e’n mia difesa, Trattovi pe’ capei, con arme pari Mi volete punir; basti la pena, Che mi dà l’opra stessa, e lo spavento Del vostro sdegno, che ogni pena eccede. Ma quando altra ragion per me non vaglia, Vagliami quel che a tutti gli altri vale. Ch’io ricorro alli dei, rifuggo al tempio, Tempio chiamo il giardin de l’idol mio. Pur se nocente mi stimate; e come Nocente giudicate or di punirmi, Movanvi da punirmi gli innocenti. Che error fece la mia cara sirocchia (Tenera come voi, non già sì bella) Cognata vostra, che lo stesso affanno Proverebbe, che voi ora provate? Che error fecer mia madre, e la mia sposa Figlia del buon Re Atrio, che, morendo Io, non vorran più rimaner in vita? L’una pria perderà, ch’abbia la nora, l’altra vedova fia, prima che moglie. Dunque se giusta giustamento meco Vi volete portar, debbo ire assolto. La Giustizia che uccide gli omicidi Non vuol gastigar l’opra, che se l’opra Volesse gastigare, i suoi ministri Poi che avessero ucciso l’omicida, Sarebbon rei d’altro omicidio anch’essi. Vuol gastigar la volontà. Se questa Dunque vuol gastigare; io che non ebbi Volontà di toccar vostro fratello, Non debbo per giustizia aver gastigo. Voi uccidendo me, più grave colpa Di me commettereste, in uccidendo Un da voi conosciuto, uno innocente, Un che v’ama; un che a voi vinto si rende. Dove tutto in contrario a me successe. La Giustizia che uccide l’omicida, Nol sa, vaga d’aggiunger sangue a sangue, Ma di proporre essempio a chi rimane. Or quale essempio fia proposto, s’io Senza scienza mia, contra mia voglia, Offendo quel, che travestito viene Per la morte ingannar, che lui non vuole? Offendo quel, che a provocarmi giunge, Per la morte chiamar, che da lui fugge? Giudice saggio non suol dar sentenza, Che su ’l giudicator tornar mai possa. Può in voi, può in tutti il mio fallo cadere. Spesso punir sogliam per vendicarci. Ma voi sapete, illustre principessa. Chi fa vendetta, si dimostra forte. E chi potendo farla, non la face; Forte si mostra parimente, e pio. Forte; che far la pò. Pio, che non vuole. E non pur debbo assolto ir, ma premiato. Che lo sposo innocente vi difesi. E se pia piamente oggi volete Proceder meco, avrò da voi perdono. Poiché perdon vi chieggio umilemente. Una altrui gran pietà non si conosce, Se a cui perdoni un gran fallo non trova. Ecco, vi si appresenta ora un soggetto, A cui d’intorno essercitar possiate La virtù, che fa l’uom pari alli Dei. Quel son pur’io, che voi tanto mostraste Prima d’amar, da voi per vostro eletto. Voi, che ’n elegger tal giudizio avete. Ma se disposta sète a darmi pena, Eccomi presto ad accettarla, e lieto Pagar con la mia morte il non mio fallo. Io già fatto l’avrei. Già di mia mano M’avrei dato la morte, ancor che ingiusta, Ancor che con offesa di innocenti, massimamente alor, che feci il colpo, che me più ch’altri offese. Ma pensando Che se io così moria, mi diffidava Della vostra pietate, e vi toglieva L’occasione, o di mostrarvi pia, O di punirmi (e da voi ogni pena M’è peggior del morir), me ne ritenni. Ritenni anco il saper, ch’io, ferendo Lo mio petto, feriva il vostro volto, Che impresso ivi si sta per man d’amore, E che l’mio cor trovato non avrei Nel mio sen, poiché s’albergò nel vostro. Oltra che questa vita a voi donata Da me, ma non è più. Né per me stesso Senza vostro voler posso disporne. Voi, che di voi medesma quel rispetto Non avete d’aver, potete farlo: Ecco dunque colui, pietosa donna, Inginocchiato a’ vostri piedi innanzi, Che vi fece pur mò sì grave oltraggio. Ecco la iniqua man, che ’l ferro strinse. Ecco la spada nuda. Ecco la spada, Empia ministra del dolente ufficio. Questa vi porgo, altissima Reina. Voi la pigliate. Onde al vostro braccio Alzata al fin, giù declinando poi Sovra me, porti il flagel vostro seco, e ’l colpo, che feci io, faccia, e gastighi, Meschi il sangue del frate, e de lo sposo, E tolga il capo al capo del mal vostro. Ecco, che ’n mano io vi consegno il ferro Nudo, e nuda la testa in sen vi pongo. E vitalmi sarà questo morire, Quando da vostre belle man mi venga. Così compiti fian gli annunzii tristi, Che avventò contra me, contra mio padre Morendo, e minacciando il fratel vostro. Così compìto fia quant’ei v’impose. Che sposo non vi sia, se non colui, Che ’l capo v’offra in man di chi l’ancise. Così dirò, che notte ho dal mio sole, E che la vita mia morte m’adduce. Così dirà ciascun, ch’ove le donne Vendicate dagli uomini esser denno, Vendicati oggi son questi da quelle. E quel, che armati i cavalieri in campo Non fecer, fan le verginette in gonna. M’incresce sol, che non s’ancidan meco Il Mago, il portinar, la cameriera, Che testimonii fur de nostri amori. Acciocché non seguendo più tra noi Per la mia morte le composte nozze, Non potessero andarvi diffamando. Dunque omai proferite la sentenza, Che a voi, o al fratel vostro m’accompagni. ADRIANA Scorgo Signor, che forza nella lingua Non portate minor, che nella spada. E quantunque la doglia del germano Quinci; e quindi l’amor, che di voi m’arde, Mi vadano adombrando lo intelletto; Pur la ragion discerno, e miro quanto Giustificata è ben la causa vostra, E di quanto al fratel son debitrice. Non vi danno però, né vi perdono. Che dove uom non ha colpa, non ne deve Chieder, né riportar perdon, né pena. Levatevi, Signore, e riponete La spada, e i preghi, or ch’io ripongo l’ira. Che troppo empia sarei, se profanassi Cotesto amato, avventuroso capo, Che di duo regni duo corone attende, Del gemino valor giusta mercede. LATINO Alle cortesi note, e al cortese atto Grazie renda colei, di cui io sono Io ben comprendo, che coteste braccia Non han potuto sollevarmi in piedi, Ma mi ponno essaltar fin sovra il cielo. Non avrà invidia il vostro capo al mio Ma la più preziosa, alta corona Del mio capo sarà del vostro amore. Chi è colei, che fuor vien verso noi? ADRIANA È la nutrice mia, cui (sendo morta Oggi la cameriera) ho convenuto L’amor nostro scoprir, non men fedele.
[2.3] Nutrice, Adriana, Latino •
NUTRICE Ritraetevi a l’ombra della luna, Che ’l lume suo non giovi, e noccia a un tempo, Scoprendovi l’un l’altro, et ambo altrui: stanchi di sospirar, di pianger fiochi Tutti in palagio or tien languido sonno. Io, poi che non è d’uopo la mia ascolta Più dentro, uscita son, come ordinaste. ADRIANA Giovò sempre il restare, e ’l venir tuo, NUTRICE Signor, come gran gloria presso a tutti V’è il vincere un guerrier, che si difende; Così grave disnor vi fòra, quando Non favoriste una real donzella, Che al primo assalto a voi vinta si dona. LATINO Donna, i conforti tuoi come son veri, Così soverchi son. Che tanta fede Troverà in me costei, tanta fermezza. Quanta io ritrovo in lei beltade, e amore. E ora col periglio, che tu vedi, A rivederla torno, e a favellarle, Per ordir meglio i bei nostri disegni. ADRIANA Fingete pur con tutti esser de’ nostri. LATINO Io non fingo, anzi è ver, che vostro sono. Signora, i vostri han posto in rotta, e ’n fuga Le nostre genti. E ’l padre mio ritratto A’ confini del regno in certa villa (Per passarsene poi subito in Lazio) Sta raccogliendo le reliquie sparse Del perseguito essercito. E con molti Mi ha mandato a tracciarle, e unire in massa Ma io, ch’altro pensier volgea nel petto, Come ho sentito dell’amica notte L’alto silenzio; i mei lasciando; solo, Anzi di più pensier fatto compagno, Da Amor guidato, vengo a tor da voi Partir dovendo, l’ultima licenza. Non piangete cor mio, levate il volto. Non guastate piangendo i teneri occhi. Eh non battete lo innocente petto Contra ragion. Che colpa ci ha il bel petto, Se mi parto io? Che colpa ci han le chiome, Da volerle sconciar? Che colpa il viso Da volerlo percoter con le palme? NUTRICE Tra quante infirmità, tra quante doglie Ha sotto ’l ciel, non ha maggior di questa, Che l’amorosa febre in noi produce. ADRIANA Pietà, cieli, pietà. Pietade, Amore, Se nel tuo terso ciel le voci ascolti De’ miseri vassalli, e non sei cieco, E sordo parimente. O solo e sommo Ben de l’anima mia, mia speme, dunque Mi volete lasciar? Daravvi il core Dunque d’andar senza Adriana vostra? E non vi annoderò queste mie braccia D’intorno sì, che non v’usciate mai, Qual’edera, qual Salmaci, qual vite, O qual rete tenace di vulcano? Deh fate, ch’io da voi non sia disgiunta. LATINO Quel, che a voi nego, a me prima negai. E porto più dolor partendo meco, Che vosco voi restando non tenete; Ma, che poss’ altro? Restar non poss’io. Menar non posso voi. Datemi voi Qualche via, qualche modo. E poi vedete Se ad essequirlo mi trovate pronto. Volete ch’io qui resti, e qui da’ vostri Vi sia smembrato innanzi a brano a brano? Volete ch’io vi meni, e a meza strada Tolta mi siate, o il mio padre ne ancida, O ’l vostro venga in Lazio a farne guerra, come andò tutta la Grecia a Troia? E forse avrebbe più ragion di farlo. E voi d’odio dotata, infamia, e sangue, Al regno marital patiate il foco, E dal regno natio leviate il meglio? Amboduo questi regni, che pur vostri saranno al fin, voi risvegliate a l’armi, Dove qualunque perda, voi perdete? E l’amorosa face, che noi arde, Dolce non sia de’ nostri petti fiamma, Ma fiamma rea, che i be’ paesi accenda? ADRIANA E s’io star non potea, non dirò un giorno, Ma un’ora pur senza vedervi; or, come Tanto da voi starò spazio lontana? E se pensando al partir nostro solo, Tanto ho dolor, che fia quando partiate? Che fia quando poi siate al fin partito? Ogni dì mi parrà maggior d’un anno. Il Sol zoppo, il ciel’orbo, il giorno notte, La notte inferno, l’aria tenebrosa. Amare l’acque, e vedova la terra. Saran le luci mie prive di luce, Dove entrerà, per non uscirne, il pianto. Dond’uscirà, per non entrarvi, il sonno. Con voi verrà il cor mio, resterà il seno. Alfin né morta restero, né viva. Non morta; sentirò pur troppo affanno. Non viva; lungi dalla vita mia. Ite veste, ite gioie, ite catene. Prendi, nutrice, quel, che del fratello Non m’ha fatto por giu l’acerba morte. NUTRICE Figlia, tempra la voce, e tempra il pianto, Che di pianto maggior non fia cagione. LATINO Il buon nocchier nel tempestoso mare, Il fin oro nel foco. E negli avversi Casi provar si suol l’animo saggio. Armate dunque il cor; dunque asciugate, Per Amor mio, le rugiadose ciglia. ADRIANA E voi, signor, perché sì spesso indietro Volgete il viso? LATINO Perché ’l pianto vostro, Come l’acqua di vite il cor m’accende, Benché da lungi Amor le faci scota. E Amor qual fabro a quel pietoso umore, Che va rigando le fiorite guancie, Gli strali tempra, e immolavi la rota, A cui gli affili, e ’l petto indi m’impiaghi. ADRIANA E perché voi ancor di pianto carchi Portate gli occhi? LATINO Deh non mi sforzate Signora, a dirlo. ADRIANA Ditelo di grazia. LATINO Voltomi, e piango, come ’l sol la sera, Che guardandosi indietro annunzia pioggia. E mentre a confortavi m’affatico, D’altri ho bisogno, ond’io conforto prenda. Qual notator, che ’n fiume alto si scaglia, Per soccorrer colui, che si sommerge. Né ’l soccorre, e con lui resta sommerso. Piango, perché due volte, ahimè, mi parto. Partomi, che da voi mi so lontano, Partomi, che per mezo mi divido. E si resta il miglior di me con voi. Sì che né quì sarò, né dove io vado. Che andando senza voi, senza me vado. ADRIANA Restando io senza voi, senza me resto. LATINO Spronerò inanzi il mio destriero, e Amore spronerà i pensier miei più forte adietro. Così sol due farò contrarie strade. ADRIANA Perché s’ognor mi dai l’aspre tue pene, Non mi presti ora, Amor, l’aure tue penne Onde dietro al mio cor mova col corpo? NUTRICE Le penne opra l’angel, l’ingegno l’uomo. ADRIANA Ma, che speme ci è poi? La speme al manco Suol condir col suo mèle ogni veleno. Qual fine al fine avrà questo rio stato? LATINO Quel fine avrà, ben mio, che desiate. Duo mesi non andran, che ferma pace Lo cui nodo saran le nozze nostre Stringeranno tra lor vostro, e mio padre, Per opra mia. NUTRICE Dove i figliuoli tanto S’amano, come odiar potransi i padri? ADRIANA È pur lungo aspettar. LATINO L’agricoltore sospira un’anno la sperata messe. ADRIANA Ma intanto, chi mi fia luce, e conforto In questa osura, e sconsolata vita, Ch’io, come tortorella a viver resto? LATINO Degli amor nostri il secretario fido, Il Mago, a cui rivolger vi potrete, Quando accidente inaspettato occorra. Egli mi avviserà per fidi messi, Dando a voi mie risposte, e suoi consigli. ADRIANA E se i petti indurati, e d’odio pregni De’ nostri genitori avesson fisso Di non giunger tra lor pace, né tregua? LATINO Allor, quando altro mezo non mi vaglia, Ve ne trarrò per mezo al ferro, e al foco Senza vostro disnor per viva forza, Anzi per vivo amor, che a voi mi stringe. ADRIANA Ma se quando sarete uscito fuori Del mio regno, io v’uscissi fuor di mente? Qual vivrebbe nel cerchio della terra Più misera di me? La morte prima Senta, che sentir ciò. NUTRICE Quel, che non vuoi Che avvenga, non dei dir, né dei temere. LATINO Del sol, del gusto, e del mio nome prima Mi scorderò, che della faccia vostra. Né lunghezza di tempo, né distanza Di loco, né successo, o buono, o rio, Né speme, né timor, né beltà nova, Né l’impiombato stral, né l’rio di Lete, O carissima donna, faran mai, Che mi perdiate. Il farà morte solo. E s’anco dopo morte amar si puote; Dopo morte d’amarvi anco vi giuro. Non fia per mutar sol, ch’io muti mente. Né, che per cangiar pèl, cangi pensero. Né che ai freddi anni il dolce foco scemi. Ogni terra, ogni tempo, ogni fortuna Vedrammi vostro. Ma cotesta tema Per qual porta vi entrò, donna, nel petto? Se (non ch’altri) lasciai me stesso ancora Per esser vostro? Abbiate ferma fede, Ch’io non son per lasciarmi in tempo alcuno. E se volessi, che voler non posso. E se potessi, che poter non voglio. Che poter, che voler, né so, né debbo. E se va dalla lingua il cor diverso, I’ prego Dio, che questa acuta spada Con questa punta, a cui lo appoggio, il passi. NUTRICE Dio vi guardi, Signor, di tanto male. ADRIANA Ma se rompeste le promesse mai Per forza (che per volontà, son certa Che non le romperà quel cor gentile), Io del vostro mentir la pena paghi. LATINO Come alla vostra la mia destra giungo, Cosi giungo il mio core al vostro core. Di ciò te chiamo in testimonio, o Luna, Che dal ciel piena, e limpida or ne miri. E voi chiare di lei compagne stelle, Che voi, prima la terra, e l’erbe il cielo Terrà, che me tenga altra, che Adriana. NUTRICE La fede sola altrui data in occolto, E ’l flagel de la propria conscienza Può tanto in cor gentil, quanto in cor vile Può ’l timor del supplicio apparecchiato In tribunal di giudice terreno. LATINO Orsù, speranza mia, sperate bene. E con la speme del ritorno lieto, Temprate il duol de la partita trista. Che ancor d’Adria, e di Lazio alta reina, E mia sposa vedrovvi ire adorata Da le madri latine, et adriane. E ’n vece de la spada, che a cotesta Man regia porsi, porgerò lo scettro. ADRIANA E ciò mi fa temer. Che a tal conforto Non mi sento istillar dramma di gioia. NUTRICE Chi molto spera, molto ancor paventa. ADRIANA O Dio, tu solo sai u’, quando, e come Mai più mi troverò co’l mio Latino, LATINO Tempo è di porsi in via. Meglio è far tosto Quanto s’ha a far, che prolungarlo, e insieme La doglia prolungar pungente, e verde. ADRIANA Deh, (si mi amate) non partite ancora. Perché pensando, che partir dovete, la mente impari a sofferirlo meglio. LATINO E che facciam più qui, se siam da’ vostri Cacciati? Se lo star qui non ci giova Ad altro omai, che a punger più la piaga, E l’un l’altro invitarci al duolo, e al pianto? E (s’io non erro) e presso il far del giorno. Udite il Rossignuol, che con noi desto, Con noi geme fra spini, e la rugiada Col pianto nostro bagna l’erbe. Ahi lasso. Rivolgete la faccia all’Oriente. Ecco incomincia a spuntar l’alba fuori Portando un altro sol sopra la terra, Che però dal mio sol resterà vinto. ADRIANA Ahimè, ch’io gelo. Ahimè, ch’ io tremo tutta. Questa è quell’ora, ch’ogni mia dolcezza Affatto stempra. Ahimè, quest’è quell’ora, Che m’insegna a saper, che cosa è affanno. O del mio ben nemica, avarà notte, Perché sì ratto corri, fuggi, voli A sommerger te stessa, e me nel mare. Te nelo Ibero, e me nel mar del pianto? O dalla invidia accelerata aurora, Che agli altri luce, a me tenebre apporti; Muti per me l’ufficio, il passo, e ’l nome. O luce, che mi ferì gli occhi, e ’l core. O Luna, perché ’l ciel sì tosto lasci? NUTRICE Ella, che guarda il natio freddo, fugge sentendo già scaldarsi a’ tuoi sospiri. ADRIANA Oggi sul regno mio pace si leva; E ’n me tramonta, e ’n me guerr’aspra sorge. LATINO Or troppo il lito d’India ne minaccia. ADRIANA E qual offesa ebbe da noi? LATINO Come somma volontà dunque omai vi abbraccio, o dolce Cor del mio cor, della mia vita vita. ADRIANA Qual mio fallo, qual forza, o qual destino Mi vi trae de le braccia? Ove sen vanno I fuggitivi mei, rari diletti? LATINO Restate in pace, e m’aspettate tosto. ADRIANA Aiutami, ch’io moro, o mia nutrice. Sostentami ch’io cado. NUTRICE Ahimè, figliuola. LATINO Deh richiamate l’anima smarrita A lochi suoi. Sentite, ch’anco in seno Sète al vostro Latino, e ch’ei v’abbraccia. Ripigliate lo spirto. Aprite gli occhi. Serbatevi a più candida fortuna. Vedi tu, donna, di condurla dentro. Né parlar, né indugiar più posso. A Dio. NUTRICE Ite, e portate nella mente impresso In quale stato la lasciate andando. LATINO Scusoti, Orfeo, se per voltarti indietro Perdersti già la riconcessa sposa, Ch’io mille volte ogn’or la perderei.
CORO
Scotete il giogo dur, rompete il freno, Sforzate la prigion di Citerea, O servi all’amorosa, ingiusta Dea. Poiché ad altro non porge occhio sereno, Che quando avvien, che pianto stempri gli occhi, O piaga crudel sangue trabocchi. Ma, che stupor, che alle ferite rida Una di Marte, e di Vulcano amica? Che una di Febo asprissima nemica Spenga ogni lume in quel, che ’n lei si fida? Che sangue chieggia, e sol lagrime amare Una nata di sangue, e nata in mare?
O nel campo d’Amor cavalier fidi, Fuggite dai costui feri stendardi Tosto, bench’ogni tosto sarà tardi. Che s’avvien, ch’egli ancor molto vi guidi, Potrà condurvi a un precipizio seco. E qual guida sperar si può da un cieco?
Qual da un uccel riposo, o qual fermezza? Qual arte, o qual prudenza da un fanciullo? Quale speme, qual gioia, o qual trastullo Da chi la propria madre impiaga, e sprezza? Qual pietà; qual perdon da un Dio sì crudo, E qual premio sperar da un Duce ignudo?
Con dura legge Amor, crudel tiranno Face adorar vana bellezza in terra. Arma i nemici, e fa agli amici guerra. Affligge la bontà, prezza lo inganno. Onora, e premia gesti iniqui, et adri. Consiglio, e aiuto dà a dui occhi ladri. Vuol, ch’altri serva senza esser premiato. Sia senza pena, chi un cor’ ha tolto. Che chi ancide, e accende vada assolto. E chi non fece error resti dannato. Il reo discioglie, e lo innocente lega, Noce a chi gli offre, e fa penar chi’l prega.
Lo suo vassallo questo empio condanna A fallaci seguir, nemiche scorte, E ad amar la cagion de la sua morte. A por sempre più fede in chi lo inganna, Ad aspettar, da chi lo offende, aita, A offrir a suoi nemici in man la vita. A pascer de’ suoi pianti chi il trafige. A vivere, e penar tra fiamme, e onde. A chiamare, e pregar chi non risponde A render grazie, e glorie a chi l’afflige. A misurare i campi, e ’l suo dolore, A contar tutti i passi, e tutte l’ore:
Arde nel ghiaccio, e agghiaccia in mezo al foco L’amante alge la state, e arde il verno. L’altrui a doglia, il suo mal prende a scherno: Corre senza mutar, né piè, né loco Apre gli occhi al ben d’altri, al suo li chiude. Le viscer’ offre a fier nemico ignude. Non gradisce ’l morir, ne ’l viver brama. La mente al suo ben pigra, al danno ha presta. Ove sé stesso accenda il foco desta. Ove sé stesso annodi i lacci trama. Tra speme falsa, e non dubbii martiri, Pan di lagrime mangia, e di sospiri.
Ma dove fia dinanzi al crudo arcero La fuga vostra? nel nivoso Ponto? Per distrugger le nevi il foco ha pronto. Forse nel ciel? Nel terzo cielo ha impero. Sotterra forse in alcun cavo speco? Ei come talpa, è per seguirvi cieco. Vi andrete forse a por tra gli animali? E fornito di strai, di lacci, e d’arco. Sott’acqua forse? Ei va di veste scarco. Nell’aria tra gli augelli? Anch’egli ha l’ali. Dunque scampar da l’amoroso telo, Acqua, aria non vi può, terra, né cielo.
[3.1] Orontea, Adriana, Nutrice.
ORONTEA Sgombra, figlia, la nebbia dell’affanno Dall’aria della mente; e della faccia. Tra, perché al suo coltor frutto non rende, E poi, per non turbar le tue allegrezze Tu stessa a torto ADRIANA E che allegrezze madre? ORONTEA le maggiori di quante può donzella Al mondo desiar che fian radice In te di contentezza, in noi di speme. ADRIANA Pur qual subito lampo d’allegrezza Può rilucermi in notte si profonda? ORONTEA Non hai cagion di rallegrarti, figlia, Tra poche ore aspettando le tue nozze? E che sposa sarai del più gentile, Più bello, e forte prencipe, che attenda Regno in Italia dopo i dì del Padre? ADRIANA Qual è cotesto prencipe? ORONTEA Il figliuolo Del re, che a senno suo stringe, et allenta Il morso al regno antico de’ Sabini. Il giovane animoso eri spronato Da doppio spron, d’amore, e di pietade Qui giunse, cinto di fiorite squadre A l’assedio discior da queste mura, Che già per nostro mal disciolto n’era. Il padre tuo, che pria lettere, e messi Sopra questo maneggio avea spedito, Conchiuse il maritaggio èri in presenza, E assicurò da’ suoi nemici il regno, non die’ la caccia lor, sendo già sera E da lunga via stanchi i Sabini. Né questa notte entrato nel palagio Sarebbe il re per la celata porta, Che nel castel risponde, se’l desio Di palesarmi quanto era successo, Non ve l’avesse occoltamente tratto. Dove anco stassi, e donde uscirà tosto. Tu piangi? Tu rivolti il viso altrove? NUTRICE Esser non può, che vergine inesperta Non si scuota, e spaventi a questo suono, E non le paia a prima faccia grave Ciò, ch’ella ancor non ha provato mai. ORONTEA Che rispondi? ADRIANA Rispondo, che non posso Risponder se non ho prima licenza Di farlo da colei, che mi domanda. ORONTEA Hai licenza, rispondi. ADRIANA Maritarmi; Madre, e signora mia, con pace vostra (Pesami il dirlo, fin su’l cor) non voglio. ORONTEA E sei osa di dirlo, e di mostrarmi? Né sotterra t’ascondi mille braccia? Non puoi risponder contra il voler mio, E contra il mio voler disvoler puoi? Puoi, e vuoi ripugnare a’ tuoi maggiori? ADRIANA Io non conosco alcun maggior di Dio. ORONTEA E che vuoi dir perciò? ADRIANA Che Dio medesmo Sforzar non vuol la volontade altrui, E che né voi sforzar la mia vorrete, Che mi die’, sua mercè, libera Dio. E le nozze non hanno effetto, dove Non dan gli sposi libero il consenso. ORONTEA Noi non vogliam costringerti, che vogli, Ma che vogli voler. ADRIANA Voler non posso. Il corpo, che da voi, che da mio padre Ricevei, dar potete a chi vi piaccia, (Quando vi piaccia) in preda l’alma, dove Né voi, né d’egli ha parte, né fatica, Datami in dono dal Signor di sopra, Non donerete altrui contra mia voglia. ORONTEA Se non vuoi, che stia l’alma, dov’è il corpo, Disgiungerem dal corpo a forza l’alma. NUTRICE Figlia non dir così. Modi sì strani Non t’insegnò giamai la tua nutrice. Buon figlio aver non de’ proprio volere Dove al voler paterno s’attraversa. Se intelletto non hai, figliuola, credi A chi n’ha più di te. S’hai intelletto, Intendi, che dal padre, e dalla madre Vinta nel senno sei, come negli anni. E che questi ad amar te cominciaro Pria, che tu stessa te medesma amassi. E però credi, che i parenti tuoi Sendoti affezzionati, e sendo saggi Non ponno errar nel procurarti il bene. ORONTEA L’ho udita, e a pena alle mie orecchie credo. La veggio, e a pena credo agli occhi miei. NUTRICE Temprate l’ira voi, somma reina. Che a poco a poco ella s’andrà avvezzando A consentirvi. Tra le fiere sono, Tratte dagli antri, indomite, e silvestri. Che dai vezzi, e dai commodi addolcite Con sue lentezze il tempo, umilia, e doma. ORONTEA Prendo il savio consiglio, che mi dai. Cosi prenda costei quel, che a lei desti. NUTRICE Udite dunque le sue scuse prima, Favellando con lei più quetamente. ORONTEA ll farò, purché al fin meco s’accordi. E al mio voler la mente sottoponga, E all’anel dello sposo offra la mano. ADRIANA Se ’n tutta la mia età corsa fin’oggi, Madre, io qual figlia ubbidiente mai Le labra a contradirvi non apersi; Ma del vostro voler legge mi feci; Turbar non vi dovrete a questa volta, Se al vostro imperio, e all’uso mio resisto. Ma con la rimembranza del passato Perdonarmi il presente. ORONTEA Anzi per questo, Credo, che non vorrai senza construtto Romper la tua ben nata, antica usanza, E la perpetua in ubbidir chiarezza, Di cui ti vieni ornando a dramma a dramma; Perdere, et oscurar così in un punto. ADRIANA E voi, che madre pia sempre mi foste, Di compiacer tutte mie voglie, vaga, Non vorrete mutarvi oggi in matrigna. ORONTEA Rendimi dunque grazie, e dammi il premio Di tanta cortesia, che ’n me provasti. Non ripugnando a quel, di ch’or ti prego. ADRIANA Torrò dunque marito, con cui debbo Viver fino alla morte, senza averlo Veduto prima? ORONTEA Ei fa teco il medesmo: Così l’ubbìdienza fia più grata. Con più sano occhio noi per te il vedemmo. ADRIANA Vedesti il volto, e l’animo sta chiuso. ORONTEA Tu, dunque, a che volevi averlo visto? ADRIANA Sono ancor troppo tenera alle nozze. ORONTEA Se sì tenera sei, lasciati dunque facilmente piegar. ADRIANA Son troppo acerba Al maritaggio, dico. ORONTEA Acerba certo. Al maritaggio no, ma al voler nostro. ADRIANA Senza voi non saprei, senza mio padre Vivere un’ora, e uscir di casa vostra Non voglio ancor. Né voi sì crudi, credo, Sarete, che scacciarmene vogliate. ORONTEA A ciò provisto abbiam. Viene il tuo sposo In casa nostra. In lui tuo padre vuole Por la somma del regno, io in te del tutto. ADRIANA Madre mia cara io voglio ancor qualche anno Viver sotto la vostra disciplina Beendo i saggi vostri, almi ricordi. ORONTEA Fai ben s’hai cotal animo. Il mio primo Ricordo è, che ubbidischi in questo a noi. ADRIANA Io, che del mio fratel morto, la imago Lacera ho innanzi, avrò pensier di sposo? ORONTEA A punto questa è la cagion, che noi Ti maritiam. Per supplir dove ei manca. Perché non resti senza erede il regno. Tu in loco del fratel lo sposo acquisti. Il genero abbiam noi del figlio in vece. ADRIANA Disubbidir non voglio al gran precetto, Ch’egli mi diè nel passo estremo; voglio Chi mi darà l’anel, la testa prima Mi dia quel, che ’l mio germano uccise. ORONTEA Non ti metter pensier, ch’egli è per farlo, E perché tu il disponghi, or fian le nozze. ADRIANA Vo pria piangere un anno il mio fratello. ORONTEA Stato è pianto abbastanza dalle piaghe De’ suoi nemici in lagrime sanguigne. Pur se piangerlo vuoi, piangi anco sposa. Il che tanto farai più di cor, quanto Ti veggia collocata mal tuo grado. Fra un anno sarai gravida d’un figlio Onde forse uscirà l’alta vendetta Cantra tutto’l paese de’ Latini. E questo dal fratel fia più gradito, Che le lagrime tue sterili, e vane. ADRIANA Dunque or tutta s’accoglie in me la guerra? ORONTEA Anzi tutta la speme dello stato. ADRIANA Perché non aspettiam, che s’oda intorno, Che colui, che sarà genero vostro Re sarà ancor di questo nobil regno? Che forse appariran più alte nozze. ORONTEA Affrettiamo il locarti anzi per questo. Che molti, non di te, ma del tuo regno, Innamorati, non vengano a gara A chiederti. E noi dar non ti potendo, Fuor che ad un sol, non siamo astretti agli altri Dar ripulsa, e non ci tiriamo adosso L’odio di tutti i prencipi vicini. Né vogliam, che di noi più alta vadi, Né di te stessa. Può cader chi sale. E il Re de’ prima perder la corona, Che romper la sua fede. ADRIANA Io già non sono Tenuta ad osservar le sue promesse. ORONTEA L’erede, che aver vuol l’ereditade, Le promesse osservar del padron deve. ADRIANA Lasciate almen, ch’io mi riabbia alquanto Dal dolor del fratel, che ancor mi preme. Né sì languida, e brutta alcun mi veggia. ORONTEA Anzi per iscusar la tua bruttezza, Il fresco affanno tuo, verrà opportuno. ADRIANA Concedetemi almen termine breve A pensarvi a dispormi. ORONTEA Ogni consiglio Di noi donne improviso è assai migliore, Se non quel, ch’ora hai tu. Poi qui condotto E il prencipe adescato a questa speme (E quel, ch’è più) tra noi con l’arme in mano. Ora ritratterem quanto si è fatto? Ora direm, che la figliuola nostra Non vuol con nostro, e suo disnor? Che noi Non possiamo voler se non vuol ella? Così di guerra in guerra andrem cadendo? ADRIANA Io dunque son la vittima, che deve Tosto cader per l’acquistata pace. Ma se non val ragion, vagliano i preghi. ORONTEA Se vuoi, che ’l prego tuo meco abbia forza, Che non l’han teco i miei, che poi fur primi? Ma per me ti darei qual ti piacesse, Quando fosse anco il figlio di Merenzio. (Benché so, che nol vuoi, che l’odii a morte) Ma il tuo padre, e signore (a quel, ch’io stimo) Vorrà che a senno suo, non che a tuo facci. Et ecco a punto, ch’egli esce col mago (Che ersera entrò con lui per consolarlo) A lui ti volgi, e lui medesmo ascolta.
[3.2] Atrio, Adriana, Orontea, Mago.
ATRIO Credo, Adriana, ch’abbi già raccolto Dalla reina quanto abbiam disposto Di te. Che sai, che vigiliamo ogn’ora Sovra il tuo ben con attentissimi occhi. Resta, che ti disponghi, e ti apparecchi Alle tue nozze. E levi al ciel le mani. Che né tu, né d’alcun di te più saggio Né con man, né con lingua, né con mente Saputo avrebbe fingerti uno sposo Miglior di quel, che noi t’abbiamo eletto. Che a te giungersi, e a noi succeder merta. Che veggio? Piangi forse? Che ti affligge? Di che sospiri? A chi dich’io? Rispondi. Non vorrai quel che vuole il re, e tuo padre E la tua genitrice, e’l tuo germano (Benché già morto) e tutto il regno insieme? ADRIANA Questo mai non vorrò, padre, e da questo in- Fuor, non vi negherò cosa altra mai. ATRIO Sei Adriana, o sei un mostro, o sei Uno spirto, o una furia dell’abisso? Tu non vuoi? A voler ti sforzeremo. ADRIANA Sforzato esser non può chi sa morire. ATRIO Tu morrai. ADRIANA Girò incontro a mio fratello. ATRIO Qual mano mi ritien da stringer’ora La giusta spada, e scioglierti dal busto Quel capo, onde già sciolto è lo intelletto? Che porta quella lingua audace, e degna Che dopo sì profana empia parola Non pronunzii mai più parola alcuna? Tu, tu, figlia, proterva, avesti ardire Al reale, al paterno imperio opporti? Se di tua madre il casto animo noto Non mi fosse (ascoltando quel che dici) Giurerei, che non fossi mia figliuola. Ah sfacciata, impudica. ORONTEA Moderate L’ira, Signor, ch’ella sarà contenta Di quanto a voi fia a grado. Il so ben’ io. Alla inesperienza verginale, E al dolor del fratel, date perdono. ATRIO Donzella, che ritrosa alle sue nozze Troppo si rende, per pietà nol face. Ma per pensiero immondo ascoso in seno, Che non osa mirar la luce in faccia. ORONTEA Al voler nostro, e al giogo maritale Pentita del suo error, piegherà il collo. ATRIO O a giogo maritale, o a mortal colpo. Stai fissa ancor ne la pazzia di prima? ADRIANA Padre, voi ben potete trar la spada, E quella per li fianchi, e per lo petto Mille volte passarmi, ritogliendo La vita che mi deste, ch’io umile Starommi, e ubbidiente a’ colpi vostri; Ma la mente invisibile, immortale, A cui fren non può por forza, né ingegno, Né con foco potrete, né con ferro Vincer, né ritener. D’ogni supplizio Avete potestà su questo corpo Generato da voi, da voi prodotto. Su l’alma no. Però canchiudo, ch’io Porger più tosto eleggo il collo al ferro Micidial, che alle braccia dello sposo, ATRIO Non m’impedir, che per coteste chiome Prenda questa megera, e di mia mano Sacrificio ne faccia ad Imeneo. MAGO Fermisi vostra maestà, Signore, Che star giunti non ponno il regno, e l’ira. Poi che ’l regno è una giusta signoria, Et una ingiusta servitute è l’ira. ATRIO Può esser, ch’ieri, et oggi i mei figliuoli (Anzi non mei, che regger non li posso) Lega a disubidirmi abbiano fatto? E ch’esser di tai figli io voglia padre? Esser può, che tu sii prima sì ardita, Che ardisca dirlo, e poi sì pertinace, Che perseveri ancor nel tuo parere? Né di vergogna il tuo viso s’accenda, Nè la tua lingua di timor s’agghiacci? Che sprezzi quella forza, e quello sdegno, Che paventa ciascun di questo stato? E di chiamar colui per padre ardisca, A cui tu neghi esser figliuola? Spento Sia il seme di tai figlie. Io vo più tosto Sentir la doglia della vostra morte, Che l’odio della vostra ingrata vita. MAGO Figlia, abbiate di voi stessa pietade. ATRIO Quest’è la somma. Io torno nel palagio Per passar nel castello, et indi uscire Per la porta, ond’io venni, e giunti in campo, Dividere egualmente tra’ soldati Le guadagnate spoglie de’ nemici. Poi col prencipe sposo darò volta Nella cittade a celebrar le nozze. E (testimonii siate voi) ti giuro Per questa sacra e coronata testa, Per questa invitta mia, vindice destra, che se di ripugnanza, o di tristezza In un minimo accento, un minim’atto Mostri un sol segno, io lascierò un essempio A tutti i padri, e a tutte le figliuole Perverse, come tu; gravi, com’io, A quei di farsi riverire, e a queste Di riverirli, si spietato, e chiaro, Ch’ogni etade, ogni istoria, ogni linguaggio Abbia di che parlar, di che stupirsi. E d’Eolo, e d’Atamante, e di Saturno Mi mostrerò più crudo. Sappi certo Ch’io voglio quel che voglio, perché è giusto. E voglio quel che voglio, perché voglio. E pensa di corcarti questa notte Nel letto maritale, o nel sepolcro. ORONTEA Non ve ne andate voi di grazia, o saggio Mago, e gran secretario delli dei, Ma restando, provate a questa sciocca Persuader con vostri dotti avisi E celesti ricordi, il proprio bene. ATRIO Restate, poi che alla reina piace. MAGO Farò, per farlo, ogni possibil’opra. ORONTEA Andiamo dentro, tu nutrice, e voi Amiche donne. Voi, signor, restate Qui con costei. Tu, figlia, resta, e ascolta Quest’uom, che l’ascoltarlo sempre giova.
[3.3] Mago, Adriana.
MAGO O Signora, io veggio ben, che la Fortuna Cominciato non ha per istancarsi A pungervi, e piagarvi d’ogni parte. Di quel che più bramate esservi parca, E prodiga di quel ch’avete a schivo. Benché non so, se la Fortuna, o voi, Più valor mostri, e più costanza serbi. Che vi pare or ch’io faccia? Ch’io v’essorti A novo maritaggio, o ch’io m’assida A sospirar con voi? Che rispondete? ADRIANA Che volete, signor, che vi risponda, Se non, che quando una di noi ci nasce, Se le devrebbe far del proprio sangue. Il primo bagno, e culla del feretro? Che posso dir, se non dolermi al cielo Dello infelice stato di noi donne, E invitar tutte in suon flebile unito A pianger meco le miserie nostre? Che cessiam dunque, o donne, d’accordarci A pianger tutte insteme i nostri mali? Di pigliarci per mano, e disgombrando Il mondo parzial, di noi dolenti Correre ad affogarci in mezo all’acque? E che vogliam far qui tra padri duri, Tra crude madri, fra infedeli amanti, Fra sposi alteri, tra tiranni ingiusti, Tra gli uomini, mortali a noi nemici? MAGO E ’n qual profondo mar le vele vostre Portar lasciate ai venti dello sdegno? Or non sapete voi, che la virtute Da’ contrarii agitata mei’ si scopre? Non sapete; che odor soave, e grato Rendono allora gli arbori odorati, Quando soffian tra lor contrarii venti? Tempo non v’è da spendere in querele. Discorriam dunque chetamente il tutto, E veggiam se rimedio vi si trova. ADRIANA E qual consiglio, o qual rimedio a questo Si può trovar, se nol trovate voi? Far sapere a Latino i gran travagli, Di cui sorte improvisa or mi circonda, Qual fiera cinta d’arrabbiati cani (Con lui partita ogni ventura mia) Non possiam che per farlo, uopo è di tempo. Impetrar tempo non si può. Tentato Ho questo prima con ripulse aperte, E preghi simulati. E questi, e quelle Riuscitemi son d’effetto vòte. La madre, il padre fier (se però padre, Se madre denno dirsi aspri nemici) Voglion, che questa sera i’ chiuda gli occhi Nella morte, o nel prendere il marito. Che ’l breve spazio di tre giorni soli Comprerei con tre anni di mia vita. Essere a colui sposa, io non consento. E tutto trarmi dalle vene il sangue Pria lascierei, che questo sì di bocca. Qual fé, qual cor darei a lui, se dato L’ho già a Latino? Come potrei farmi Sua, se mia più non son, ma tutta d’altri? Colui meco giacendo, giacerebbe Con un cadaver puro, o un fier nemico. Lasciar lo mio signor, né vo, né posso. Posso, e voglio lasciar prima la vista, Anzi la vita, che sol vive, e nacque Per esser cara a lui, da lui goduta. Ben si dorrebbe, e giustamente, ch’io Tanto della sua fé temuto avessi, E la mia poi sì tosto avessi rotto. Come colui che navica, a cui sembra, Che parta il lido stabile, e part’egli. Anzi il giudicio in sé, li dèi giurati Da me, torrebbon con giusto gastigo, Facendomi provar, che alcun non deve Più tema aver d’uom che delli dèi. Scoprirlo al padre è vano. E chi non vede, Ch’ei vorrà prima ch’io di fede manchi, Che mancarn’egli? Ma facciam che voglia. Quand’egli intenda poi qual’io m’elessi, Non leverà da farlo ogni pensero? Ma quando balenasse anco speranza, Che volesse mancar di fede il padre, E giunger mi volesse a un suo nemico; Chi terrebbe giamai sì grande ardire, E sì picciol pensier di sua salute, Che portasse a mio padre annunzio tale? Alla madre scoprirlo fòra peggio. Di tanto sdegno sta infiammata contra Chi la spoglia dell’unico figliuolo, Che pietose appo lei Progne, e Medea Potrebbon dirsi. E ancor Tigre, a cui abbia Veloce cacciator, rubato i figli. Nascondermi, o fuggir non m’è concesso. Quanto più alto è il grado, ov’or mi trovo, Tanto vista, e notata meglio sono. Come cittade in alto poggio assisa. Prender lo sposo, che mi dà mio padre Per farne strazio poi la prima notte, (come di Danao fer le ardite figlie, Riempiendo io tra lor lo scemo loco) Troppo apporta periglio, e troppo danno. Che prima, ch’io levassi a lui la vita, Egli levato avrebbe a me l’onore. L’onor, che al mio signor solo conservo. Dissuader colui dalle mie nozze Potrei sperar, quand’io non fossi erede Di questo ricco e bellicoso regno. Ma il mio regno medesmo or mi fa guerra. Che si de’ dunque far? Voi, mio gran mastro, Che alta scienza, esperienza somma Nelle divine, e umane cose avete, E avete potestà di parlar meco, D’ogni afflitto speranza, e aiuto certo; Voi, che del nostro amor principio, e mezo Foste; voi, cui Latino mi commise, Ch’io ricorressi in ogni mio bisogno; Per l’amicizia candida, e tenace, Che con l’amante mio giunta tenete; Per quella confidenza, ch’egli ha in voi; Per quella riverenza, ch’io vi porto; Per liberar dall’ira acre del padre, Dalle rapaci man del novo sposo, Dallo sprezzar la fede, altrui giurata, Dal perder l’onestade altrui dovuta, O da morte, e da inferno una donzella, Figlia d’un re, d’un vostro amico sposa, A voi raccomandata, a voi ancella, Amante sì fedel, sì giovanetta, Lungi dal suo amator, del fratel priva, Dal padre, e dalla madre abbandonata, Che non sa, che non vuol volgersi altrove; Tentate, aprite, imaginate modo Di darmi alcun soccorso, il qual s’io vile Femina a riconoscer non son atta; Riconosciuto fia dal mio Latino Cui la vita due volte avrete dato La mia, e la sua, che nella mia si vive. Deh non v’incresca farlo. Poi che l’uno Prender de’ duo partiti mi bisogna. O che mi diate voi presto consiglio, O ch’io morte prestissima mi dia. MAGO Coteste vostre lagrime, con voi Movonmi a lagrimar. Né ciò ricuso. Quando più onesto è il pianto che spargiamo Nelle miserie altrui, che nelle nostre. Ma in tanta angustia, e inopia di partiti Riprovati da voi, struggomi dentro Di voglia, e d’impotenza d’aiutarvi. Meco discorro, e cerco, e trovo questo Solo, che nulla trovo. ADRIANA Io so, Signore, Che il saper vostro è tanto, che al ciel poggia, Sotterra scende, e l’aria, e l’onde abbraccia, E mi potete aitar. Pur quando d’altro Non vogliate aiutarmi, almen vi prego, Che una mi diate, o due di tosco dramme, Che di nettare invece eterne saranno. Quel, che a’ dannati è pena, a me sia grazia. Di questo ho somma sete, e vi prometto Render del mortal don grazie immortali. Perché con men mio carco, men dolore Del mio Latino, con maggior prestezza, E con minore strepito i’ mi sciolga Dalla vita, dal duolo a e dalle nozze. Altramente, so ben, quel ch’io disegno. Divenuta crudel contra me stessa Con maggior biasmo mio, maggior sua doglia Nel mio petto (mercè la pronta mano) Convertirò l’inessorabil ferro. E vedrò se mio padre sarà buono Per darmi, mal mio grado, oggi marito. MAGO Voi già mi sconguiraste per tai cose; (Che tale amor porto a Latino, e tale Ad Adriana; e con si forti nodi Legano i dolci preghi un cor gentile) Che grazia alcuna a voi negar non posso. Pregovi ben, che ciò resti sepolto In profondo silenzio, e ’n alto oblio. Onde la mia pietà non sia, com’acqua, Chi gli altri monda, e se medesma tinge. ADRIANA Datemi pur questo velen, che questa La via proprio sarà d’assicurarvi, Che ciò non s’abbia a risaper. MAGO Veleno Non vi darò già io, che s’io ve’l dessi, Degno i’ sarei di berlo poi. Ma intenta L’orecchie, e’l cor prestate al mio consiglio, Io vi darò una polve, che mi diede Di sua man propria il sonno allora, quando Io visitai le sue cimerie case, Piena di inestimabile virtute. Questa beendo voi con l’acqua cruda, Darà principio a lavorar fra un poco. E vi addormenterà sì immota, e fissa, E d’ogni senso renderà sì priva: Il calor naturale, il color vivo, E lo spirar vi torrà sì, sì ’i polsi, (In cui è il testimonio della vita) Immobili staran senza dar colpo; Che alcun per dotto fisico, che sia, Non potrà giudicarvi altro, che morta. Et io, che lo saprò, ne starò in dubbio. E tante ore starete cosi, quanta Fia stata la misura della polve Ecco l’arca real là fuor del tempio, Dove i defonti della casa vostra Composti son, dal fratel vostro in fuori. Per morta in questa vi porran. Ma dite, Non prenderavvi orror di tanti morti? ADRIANA Se questa via dee darmi al mio Latino, Non per l’arche passar fra i corpi morti; Ma tra l’alme dannate per l’inferno; Non mi spaventerei. Seguite pure. MAGO Frattanto manderem fidato messo Occoltamente in fretta al vostro amante, Che poco ancor da noi lontan camina, Con lettere secrete ad avvisarlo Di tutto ’l fatto. Il qual senza dimora A dietro l’orme rivolgendo, tosto Sarà qui giunto, et egli, o (se fia tardo Alquanto) io vi trarrò de l’arca fuori. E travestita andrete fuor con esso. E così nella morte, e nel sepolcro La vita troverete, e il maritaggio. Così l’ira paterna fuggirete, Le odiate nozze, e con pietà commune senza alcun biasmo, senza alcun periglio Lieta cadrete al vostro amante in mano. ADRIANA Trovar non si potea strada migliore. Né di voi sperar altro si doveva. Né d’altro da me credersi era giusto MAGO Ecco la polve, ch’io vo darvi, tanta Vi farà morta star ben sedici ore. E sedici ore ben sono abbastanza. Prendete, e fate com’io dissi. ADRIANA Intanto Non vi si scordi, che ne vada il messo. Perché n’abbia il mio amante avviso tosto. O virtuosa polve, fammi lieta. Fa’ che’n polve non vada il mio disegno. Chi di me fia più fortunata in terra? Signore, odi il mio prego, e l’essaudisci. Mirerò mai più lieta il mio Latino? MAGO Entrate in casa, io dirò a queste donne, Che a punto ad incontrami or escon fuori, Che disposta venite a queste nozze. Donne, fornite il nobile apparecchio De le beate nozze, e ’n chiaro grido Invocate Imeneo. Poiché placata Vien la novella sposa al suo marito.
CORO Specchio del dì, foco celeste, e sacro Al lido occidental porta la faccia Spronando col desio nostro il camino, E nel salso del mare, ampio lavacro Tu la tua Teti in dolci nodi abbraccia, E la sua sposa il prencipe Sabino. Prolunga il matutino, Pensa stringer la ninfa tra le braccia, Di cui mutata i rami, or ti consacro. Fa’ vendetta di Clizia; ch’ella tardi Più dell’usato il tuo bel viso guardi.
E tu, s’a riscaldarti il freddo seno, Cinzia, entrar mai d’amor fiamme cocenti Da i Lammii, o da i Menalii sassi scosse; Nel teatro del ciel puro, e sereno Scopri veloce i tuoi forbiti argenti, Tra le compagne in folta squadra mosse. De l’aureo cerchio tuo, di rai lucenti (Come d’ogni virtute il capo ha pieno) Cingi alla sposa nostra oggi le chiome. Così dato le avrai la gloria, e’l nome.
Tu, ciel, comincia accender le tue stelle; Tu terra, a gara alluma olivo, e cera, Portando i cigni quel, questa le pecchie. Sicché, se’n terra, o in ciel di più fiammelle Splenda, non sappia pur la stessa sera, Che fuor d’ogni uso attonita si specchie. Il tutto or s’apparecchie Che poi su per li tetti a schiera a schiera Le lucerne comparse, e le facelle Della notte squarciando il fosco velo, Emule sian dello stellato cielo
Vieni agli sposi, e tu notte beatrice, Lunga traendo al trappassar dimora, Sul tuo stellato carro trionfando. Vieni, poiché saper sola a te lice De’ lor diletti onesti il tempo, e l’ora. E come l’ape i fior va depredando, Tu va, saggia, adunando Da’ bei lumi, onde ’l ciel tutto s’indora, Ogni influsso più prospero, e felice. Poi tutti insieme accolti, eletti, e novi Sopra i duo sposi a man piene li piovi.
Tu le mani intrecciato, e ’l viso cinto Della tua casta, immaculata face, Vieni, è grato, e legitimo Imeneo. Del grazioso giogo il collo avvinto, Che ’n duo corpi una sola anima face, Lasciando il chiaro vetro Pegaseo. Voi, che al pastore Ascreo, Dotte sorelle, apriste ingegno audace. E tu, Febo, sgombrando Eurota, e Cinto, Portate a queste nozze il suono, e ’l canto, Cantate degli sposi il doppio vanto.
Vieni del sommo re moglie, e sorella, Che hai regno sopra i geniali letti Con Lucina dipinta di pietate. Portando di tua man le caste anella. Che insegnino a goder casti diletti, Sulle esperide piante, a nel ciel nate: Con gemme sì pregiate, Che ’l lor pregio la sposa in modo alletti; E le dita, anzi ’l cor le stringa, ch’ella In vece di tai gioie non si aggrave Dar la più cara, e ricca gioia, che ave.
E tu Prometeo, al lume eterno ascendi; E avvicinando a quel l’audace verga; Del divin foco aver semi procura, E a questi sposi poi le facci accendi. Tu segno amato, in cui allora alberga Il Sol, che’l Capricorno più non cura (Accioché un’acqua pura S’appresenti agli sposi, e ’n lor s’asperga) Con pace del tuo amante a noi discendi. E dell’acque, che stan su ’l fermamento Giunte in ghiaccio, empi pria l’urna d’argento. Voi, dive, a queste nozze venite anco, Che attorceste gli stami altrui vitali, E col fuso adduceste un sì bel sole; ornate questo dì d’un velo bianco, E trame apparecchiate auree immortali Per quando giunga la bramata prole. Lo sposo omai si duole, Espro, di te, che innanzi al giorno salì, Né di correre ancor ti mostri stanco. Rimanti al sol da tergo, accioché come Tu muti, muti la donzella il nome.
Il fine del Terzo Atto.
[4.1] Messo, Coro.
MESSO Chiaro occhio del ciel, che non ti ammanti D’una pallida ecclissi, e tenebrosa, Sendo ecclissati i bei lumi, onde avevi La luce, come l’ha da te la luna? Né più potendo tu co’ raggi tuoi Cosa mostrarne, che ne piaccia al mondo? Mentre nell’aere circosparso appesa Penderai; piangi, o terra, che prodotto Hai la mortifer’erba, il fier veleno, Che ha dato morte alla real donzella. Non rendete più grazie al sol nascente, Erbe, il mattin, com’è costume vostro. Poi che alcuna di voi virtù non ebbe D’essaudir nostri voti, e sanar lei. CORO Ahi, che voce si sente Dietro a noi sì dolente? MESSO Ah donne ingrate, e più che marmi dure (Che questi almen tacendo mostran segno Di pensier, di dolor, di meraviglia) Che fatte di cotesti accenti lieti, Da queste porte mille miglia, e mille Banditi eternamente? È questo quello, Amor, che al re portate, e alla figliuola? CORO Perché contra ragion così ne incolpi. Messo gentil? Palesa ancora a noi Quale improviso, insolito accidente In sì questa bonaccia Della gioia real turba la faccia. MESSO Voi dunque qui cantate, e non sapete Il pianto ancor, che si fa dentro? CORO Nulla Sappiam di ciò. Deh non t’incresca dirlo. MESSO Dirò, sè dai singhiozzi, e dai sospiri Della voce il camin non m’è interchiuso. CORO Come al giorno la notte è ogn’or vicina, Così col riso il pianto ogn’or confina. MESSO Dopo il secreto ragionar contesto Fra il gran mago, e la vergine reale; Poi ch’ella nel palagio, esso andò al Tempio, Le donne ornate di letizia il volto, Ruppero dentro, e accelerando i passi, All’antica reina rapportaro, Come la figlia inespugnabil pria, Con accorto consiglio arresa s’era. E rotto il duro suo primo proposto Alle aborrite nozze era discesa. CORO E fu pur ver. Se ’l vero egli ne disse. MESSO Del che lieta Orontea tosto si trasse A recitarlo al re, che d’ira acceso Contra la pertinacia della figlia, Da qutesti tetti ancor non era uscito, Della cittade, a gran negocii intento. Mentre assisa col re stava Orontea, Mosse Adriana: e innanzi a lor comparsa, In supplie sembiante, e ’n gesto umile, Cader lasciossi riverente a terra A piè de’ gran parenti; e’n lor figendo Gli occhi; sciolse la lingua a queste note. “O genitori mei, con l’ostinata Durezza, onde mi cinsi il cor d’intorno; Se pur v’offersi (che vi offersi certo) Pentita del mio error, conoscitrice, In colpa me ne do con questi colpi, Che la man nuda al petto nudo imprime: (E ciò dicendo percoteasi il petto) E d’avervi noiato ho maggior noia, Che non aveste voi del mio noiarvi. E più digiuna della pace vostra Son, che non sète voi delle mie nozze. E quinci mai non sorgerò, se voi Sovra la testa mia non ispargete Del bramato perdon l’alma rugiada. Che s’egli avvien, che chiave avara questo Sospirato tesor mi neghi, e chiuda; Mi parrà, che fuggendone Imeneo, Alle mie infauste e sfortunate nozze Col velenoso crin, megera sieda. E trattone il dì d’oggi, vi prometto, Che mai più non udrete questa lingua Levarsi contra voi, né questo core”. CORO Parole da spezzare un cor di marmo. MESSO Di tenerezza lacrimando allora I genitori suoi, l’alzar da terra. Quei per la destra man, questa per l’altra. E stampandole doppio bacio in fronte, Et influendo in lei grato perdono, Al primo seggio della grazia loro, Commendandola assai, la ritornaro. CORO O corrisponda al bel principio il fine, E grato vento in grembo all’onde morte Col tuo dolor la tema nostra porte. MESSO Ciò fatto, comandò la bella sposa, Che se le apparecchiasse un fresco bagno Soavissimamente temperato, In cui lavata, e d’odor vari sparsa (Per non contaminar le nozze sue) Si rivestì d’un manto, che’n bianchezza Giostrar potea col latte, o con la neve. E poi che l’aureo crine in aurea rete Con maestrevol cerchio ebbe ritorto, E dallo specchio suo preso consiglio; Già tutta ardendo nelle proprie gemme, E coronata delle sue donzelle; Entrò nel bel giardino, e con gioiosa, Che parea proprio innamorata mano, Andò cogliendo i più ridenti fiori, Le più vaghe erbe, e le più care fronde, E se n’empìo le man, se n’empìo il grembo. E poi se ne tessé nobil ghirlanda, A composti capei soave peso. Onde parca l’augello orientale, Che’n grembo ad odorate, elette fronde Del propinquo morir l’annunzio aspetti. O l’incauta Proserpina, allor ch’ella Della Siciglia nel fiorito seno Dal notturno amator rapir si vide. CORO Non è già questa ancor trista novella. Ma tristo, e pien d’antiveduti guai È ben l’augurio, o messo, che ne fai. MESSO Tornata dal giardino alla sua stanza, Tosto ch’ebbe in affetto ogni sua cosa. Assisa sopra il letto ad una ad una Abbracciar volse le donzelle sue. E con parole affettuose e vive, Che, con tacita forza dalle luci Altrui spiccavan liquidi cristalli, Ringraziò tutte degli ufficii loro, Che avean d’intorno a lei fin’allor fatto. Le sue parole, e gli altrui merti ornando Vi varii premii, dispensati in giro. Dicendo: “Quel, c’oggi sposar mi deve, Non vorrà, forse da mei preghi addotto Qui soggiornar. Né voi, forse verrete Meco là, dove andar bramo, e disegno, Per la sorte che qui sempre m’afflisse. E Dio sa, se mai più di rivedervi Impetrerò dalle venture mie”. Poi comandò che tutta la famiglia Delle sue serve s’accogliesse altrove, E chiudesson le porte, e le finestre Della sua stanza. Però ch’ella stanca Dalla vigilia della notte adietro Lacrimata da lei sopra il fratello, Con un breve riposo in braccio al molle Suo letto si volea prender ristauro. Regnando il maggior sol nel cor del cielo. CORO O non questo riposo Grave travaglio adduca, E sì buon seme, rio frutto produca. MESSO Uscendo queste, alla nutrice impose, Che le recasse un vaso d’acqua fresca, Per mitigar la sua fervida sete, Pria che al sonno vicin si desse in preda. La buona vecchia ubbidiente, e presta, Con effetto rispose alle parole. E presentòle una gran coppa d’acqua La qual brillava ancor nella freschezza, Portata dalla sua natural vena. E sembrava stemprato, e puro argento, Et empiva la tazza insino al labro. Con ambe man la giovane la prese, E mandò la nutrice in tanto a torno Al bel letto a tirar l’usata nube, Che quei ch’entro vi son tranquilla e adombra. E con avidi sorsi il liquor tutto Beendo, al vaso apparir fece il fondo. Poi favellò: “(s’io posso) mal mio grado, Padre, non mi darete oggi marito.” La nutrice or comprende queste voci. Che ne è verace interprete il successo. Ma già non le comprese allora, quando Era più di comprenderle bisogno. E uscita anch’ella fuor, la stanza chiuse, Dove in mezo alle tenebre ivitate; Adriana restò su’l letto sola. CORO Guardane, o Dio, di male (Benché avvenuto è il mal, che avvenir deve) O s’egli è troppo greve, Rendilo almanco breve, O se pur lungo, almen facile, e lève. MESSO Lunga stagion le damigelle fuori Stetter, pur aspettando, che la bella Sposa riscossa dal soave oblio, A sé le richiamasse. Ma poi ch’elle Si furo accorte lei non risvegliarsi; E a gran passo ire il dì verso la sera; Sparrati gli usci, entraro, et (o pietosa Vista da far sentir le sue dolcezze Nelle fiere, negli arbori, e ne’ sassi) La giovane real, la nova sposa Su’l suo letto trovar distesa, e morta. CORO Ahimè, messo, che reciti? MESSO Le foglie Della Sibilla. Quel, che né tacere Posso, né raccontar con giuste note. CORO E donde questa inaspettata morte Nasce alla mia signora? MESSO La cagione Dicavi chi la sa. Dirvi l’ effetto A me sol basta. CORO Pur, che si sospetta? MESSO Ciascun sospetta (e’l sospettar non falle) Ch’ella avesse il velen già preparato A darle in sonno non sentita morte. La sete, e’l sonno a studio simulasse, E del succo letal condisse l’acqua, Portata a lei dalla nutrice, mentre In altri ufficii l’occupava; e poi L’avvelenato calice votando, Cagionasse ella stessa il suo morire, Per non si maritar contra sua voglia. CORO O misera donzella, Come miseramente la beltade, E la tua verde etade Perdesti. E questa, e quella, Come rosa novella, Che da raggi del sol percossa langue; Rimane estinta, in te rimasa essangue. Ma segui, e dinne, messagier cortese, In che gesto corcata la trovaro. MESSO Da’ panni era coperta infino a’ piedi. Le belle man s’avea composto al petto Con le dita incrocciate. Il volto vòlto al ciel tenea. Né suoi chiusi occhi morte Sembrava trionfar, divenir bella. Come prima, di fior cinto avea il capo, Su un origlier soavemente posto, E tal si dimostrava nell’aspetto, Che viva addormentata ancor parea CORO O vergine infelice, Che ti sostieni in piè tra tante noie, E cadi all’apparir delle tue gioie. MESSO Tutte le squadre delle sue donzelle Tinte la faccia d’un color di terra, E d’un liquor’ onesto di pietate, Del letto ai fianchi, et alle fronti avvolte, Da poi che con la voce, e con le mani Tentar di richiamarla a questa luce, E si videro al fin non essaudite, Dier nelle strida, e somigliaro i venti, Quando nel carcer lor chiusi, e compressi Tra sé stessi gemendo in tuon discorde Fremon d’intorno ai chiostri e accolto sforzo Metton per farsi spaziosa uscita. Surse, e si sparse per l’ampio palagio Un vario pianto, al cui crescente suono Corse Orontea. Corse il re Atrio, e udita, E vista la cagion, gli accrebber forza. Non giunse a voi? E cominciar lamenti Da intenerir l’orror del freddo, e duro Caucaso, e del sassoso irsuto Atlante. CORO Ben avevi ragion. Messo gentile, Di lamentarti in sì doglioso stile. Ma il nostro giunger tardi alla tristezza, Contrapesato fin dalla gravezza. MESSO Deh, che voi non avete udito nulla; Restami ancor a dir la maggior parte. Ma già la notte all’orizonte sale, E d’ogni intorno il vel bruno dispiega, E dove il re mi manda, andar conviemmi, CORO E dove ti mand’egli, se tu giunga A tempo, ove t’invii, nunzio fedele? MESSO Disse, che per veder, se la figliuola Pur risorgesse, io mi fermassi un’ora (Che mentre con voi parlo e già passata) Poi (s’altro avviso non intendo) vuole, Ch’io vada al tempio a dar contezza al Mago, Del frutto che han prodotto i suoi ricordi. E ch’ei venga con gli altri sacerdoti In apparato publico, e solenne; Come la notte abbia sepolto il giorno; A celebrar l’essequie d’Adriana. Poi esco dalle mura incontro al novo Sposo, figlio del re sabino, e a nome Nostro lo avviso, com’egli non ave Qui più, che far, che può tornarsi a dietro, S’a parte esser non vuol de’ nostri guai. Poi, per comission della nutrice Più là si stende ancora il mio viaggio, CORO Deh, dillo ancor’ a noi, se ti si presti Cinzia nel tuo camin fida compagna. MESSO Vuol costei, ch’io rompendo ogni dimora, Tosto raggiunga il prencipe Latino, Il qual da noi ancor poco lontano Conduce in Lazio le sue vinte squadre. E trattolo in disparte, il mesto occaso Gli annunzii della misera Adriana. Perché, non so. Né di saper mi cale. Poi ch’ella il ricercarlo m’interdice. Ma lei vedete appunto sulla porta. Udirete da lei quel, che m’avanza. CORO Va col favor del ciel, messo cortese.
[4.2] Nutrice, Coro.
NUTRICE Afflitta d’ascoltar sazia di udire, Dentro gli strani strazii, e l’aspre strida, Esco fuori a dolermi d’Adriana. Ah figliuola crudel, se erario fido De’ tuoi secreti m’eleggesti prima, Perché mi nascondesti or questo solo? Se in ogni tuo viaggio mi menasti Compagna teco, perché ’n questo estremo Sola n’andasti, e mi lasciasti sola? Temesti, che negar ciò ti potessi? Non sapevi, che più dovea spiacermi Il viver senza te, che’l morir teco? Temesti, che seguir non ti potessi? Qui s’aveva a lasciar la scorza grave Sotto l’fascio degli anni afflitta, e stanca. Quando in abbracciar l’altre, me abbracciasti Ancor, perché non dirmi nell’orecchio: “Nutrice, oggi morrò, seguimi tosto”? E della tua bevanda farmi parte, Come a ogni altra cosa far solevi? Ma, che risponderò, lassa, a colui, Che mi ti lasciò in grembo tramortita Al suo partir, quand’ei mi ridomandi Il deposito suo? Dirò, ch’io stessa Via l’ho gittato, e aspretterò la pena, E per pena la morte. Benché morte (Se questa ha da condurmi, ove tu sei) Pena non mi sarà, ma grazia immensa. Voi scelerate man, voi foste quelle, Che a fin metteste l’essacrabil opra, Porgendo a quelle labra il vaso (donde Uscì spietata, e dolorosa morte) Cui già porgeste gli alimenti primi. Io quella, io quella fui, che dissi, bevi Figliuola, bevi. E tu figliuola, fosti Quella cosi inumana, che volesti, Che chi già dato il nutritivo umore T’avea, ti desse poi l’acqua mortale. Io dunque ti allevai con darti il latte, Per anciderti poi, dandoti l’acquai? Dunque con queste man, nata; di terra Io ti ricolsi, acciocché queste mani Fosser cagion, che poi sotterra andassi? A voi, ciechi occhi mei, toccò vedere, S’ella ponea nel vaso, o polve, o succo. Quale, adunque, fia quel vindice giusto, Che tronchi queste man, cavi questi occhi? CORO Deh, nutrice, perché ti affanni tanto? NUTRICE Chi’l nome mio vuol darmi, dìami nome, Non di nutrice più, ma d’omicida. CORO La intenzion nell’ opre si riguarda. Come al peccar la voglia prona basta. A pena meritar, benché non pecchi. Così colui, che di peccar non crede, Quantunque pecchi pur; di scusa è degno. Però queta i sospir, ristagna il pianto, E narra or dove è la donzella morta. NUTRICE Com’ella si lasciò nel letto stesa, Sulla barra funebre è stata posta. Che di sua mano avendosì lei dato Pur mò il bagno, altro bagno non occorse. Il capo ha cinto ancor di fresche rose (Miste con altri fiori, et erbe in cerchio) Che a chi la mira son pungenti spine. Cento donne le stan piangendo intorno Vestite alla divisa della notte, Co’ capei sparsi. Il letto e d’ogni parte Circondato di lumi atri, e funesti. La giovane tra quei sembra la Luna In mezo a molte stelle allor ch’eclissa. CORO Che conchiudono i fisici reali? NUTRICE Che già sette ore son, ch’ella è passata Per bevuto velen di questa vita. CORO La reina, che fa? NUTRICE Chi vuol vedere Turbato il cielo, e tempestoso il mare; Miri a quest’ora lei. Non così folta Tocca, e percote la tempesta i tetti, Com’ella con le pugna il sen si batte. CORO Il re come sopporta questo colpo? NUTRICE Egli, per esser’ uom d’animo altero, Con occhi di diaspro in fronte ferma Dentro a più saldo mur l’affanno stringe. Non però sì, che non se’n legga parte Fuor ne’ gesti. Ei si fa della sinistra Letto alle guancie. E con la destra mesce La barba carca d’onorato verno. Di vivo marmo in umil seggio pensa, Pensando tace, e tacendo sospira. Onde paiono un sol l’assiso, e’l seggio. Ma eccolo uscir fuor col consigliero. Et io per dargli loco, entrerò dentro. CORO Va, nutrice, che l’cielo aggia pietade Del tu’ duol, del tuo error, della tua etade.
[4.3] Atrio, Consigliero, Coro.
ATRIO Non mi dorrò d’aver perduto i figli? CONSIGLIERO Non perde il suo colui che l’altrui rende. Alla terra dovevansi i corpi; l’alme A Dio, tutto ’l composto alla Natura. Non biasmate colui che ve li toglie Sì tosto, ma più tosto li rendete Grazie, che tanto spazio ve gli lascia. ATRIO Di quei che da me amati, e chiesti foro, Quando in esser non fur, né per venirvi, Ora non mi dorrà, che per poche ore Avendoli goduto, resto privo? CONSIGLIERO Dio vuol farne veder, che domandiamo Cosa tal volta, che aborrir devremmo. E che devremmo al suo saper più tosto Rimetter sempre ogni domanda nostra. Dio, mirando, che noi poniam ne’ figli Quell’amor, quella speme, che devremmo Porre in lui, giustamente ne li toglie, Come cortesemente ne li diede. E’n lui solo sperare, e amar lui solo Ne insegna, né fondarci in questo mondo. E così Dio sovente ne gastiga In quel proprio soggetto, in cui pecchiamo. La pianta disgravata de’ suoi parti, Leva le braccia in alto, e’l capo al cielo, Quasi grazie rendendoli, che scarca Del peso sia, che la curvava in giù. E voi de’ figli scarco vi dolete. Chi non può riveder con gli occhi i figli, A rivederli con la mente vada, Parte nostra più bella, e più perfetta, Ch’esclusa d’altri oggetti esser non puote. Se buoni i fìgli fur; godete. Poi, Che andati sono anzi’l venir malvagi; E andati in parte, dove la mercede Godon delle buon’opre. E tal mercede, Che lor non sarà tolta in alcun tempo. Se rei; godete, che ve gli abbia Dio Levati innanzi il diventar peggiori. E allegerito voi di quel pensiero, Che cruccia i genitor de’ figli rei. Se amate i figli, abbiate estrema gioia, Che siano fuor delle miserie umane. Se gli odiate; allegrateui altretanto, Che levati vi sian dinnanzi agli occhi. Se i figliuoli vi amavano, acquetate. Il duol, per non turbarne il lor riposo E se in odio vi avean, non date loro La contentezza del vedervi in doglia, Mentre l’anime lor son qui d’intorno. Se questa vita è amabile, e felice, Non vi carcate di dolor, che questo Non sia cagion di farvene partire. Se odiosa, e infelice è questa vita, Non v’ingombri dolor de’morti figli. Se credete, che Dio sia savio, e giusto, (che se non fosse tal, non fòra Dio, Anzi è giustizia, e sapienza somma) Credete ancor, che savia, e giustamente v’abbia levato i figli. Il che, se è vero; sentir non ne dovete alcuna doglia, Or non avete più, sir’, chi vi faccia Vegghiar le notti, e i giorni; e aver fatica Di bramar, d’acquistar, di conservare. Di perder tema, e duol d’aver perduto. Viveste altrui, vivete ora a voi stesso. Se (come han molti) non avete figli (Come molti non han) voi stesso abbiate. Goda il mio re d’avere avuto figli, Da non dolersi già d’averli avuti, E da desiderar dì riaverli. Meglio è del buon figliuol pianger la morte, Che del malvagio sospirar la vita. Chi ’l suo figlio mortal piange, scordato De la mortalità sua stessa parmi. Tante volte l’altrui, né mai la nostra Morte piangiamo, che ogni dì si vede. I figli eguali a noi in ogni cosa Bramiamo. E nel morir sì innato à l’uomo, Ne duol d’avergli a noi prodotto eguali, ATRIO Non mi dorrò, che ’n loro età più verde Fèra tempesta abbatta i frutti mei? CONFESSORO Meglio è che’l frutto sia spiccato verde, Che stia tanto nell’arbor, che si guasti. Fingete, che i figliuoli in si lontana Parte abbian preso già marito e moglie, Che voi non siate più per rivederli, Voi forse morto esser vorreste in quella Etade, in cui moriro i figli vostri, Per esser fuor delle miserie nostre. Quanto moriam più giovani, moriamo Tanto più puri, e con maggiore speme Di gire in parte riposata, e lieta. Non è la lunga vita un viver lungo. Ma un lungo affanno, e lungo aspro morire. Non perderanno, i figli, come voi. Né come voi, dubiteran del regno. ATRIO Duolmi, che morti siano avanti il tempo. Quanti disegni, ahimè, mi vanno or guasti. CONFESSORO Avanti il tempo, e dopo il tempo, alcuno Non more. Ognuno ha il tempo stabilito, Avanti il qual non può morire. E dopo Il qual non e possibil, che più viva. Ma, rispetto all’eterno, che credete, Che sia un’età, che più viviamo al mondo? A un giorno, a un’ora, a un attimo non giunge. Vecchio more ciascun quanto al suo fine. Giovane quanto al viver nostro breve, Quanto al desio di chi riman, fanciullo. Assai lunga è la vita, s’ella è piena. Piena di virtuose opere buone. Un viver lungo, e voto, i’ chiamo breve. Chi è, fuor, che nemico, o invidioso Quel che si duol che troppo tosto sia Giunto al porto il nocchier, che alla vittoria Sia troppo tosto giunto il Capitano? I figli vostri ebbon più breve essiglio Dalla patria, a cui già tornati sono, Che non aveste voi. Or, se piangete; Non per lor, ma per voi si versa il pianto. Come siam differenti in istatura, Laqual nessun può far più lunga, o breve; Così siam differenti in quello spazio D’anni, che a viver ne prescrive il cielo. ATRIO Fossemi almen di duo rimaso un solo. CONSIGLIERO Più tema v’apportava un sol rimaso. La sorte or non ha più strai da ferirvi, Né voi più loco avete, in cui vi fera. ATRIO Di tanta mercè sola i giusti dèi Mi avessero degnato almen, che a un tempo Non mi fossero mancati ambeduo insieme. CONSIGLIERO Peggio era che l’amor, che in ambo dui Fu misuratamente compartito, Si sarebbe ridutto tutto in uno. Onde ogni volta ambascia, quale or sente La fragilità vostra, avria sentito. ATRIO Chi prima venne, andar prima dovea. E chi dopo arrivò partirsi dopo. CONFESSORO Più lieta or se n’andrà l’altezza vostra, Non lasciando, ma andando a rivedere Quei, che l’aspetteran nell’altra vita. Sgombrata di quel carco prezioso, Che dietro si traea sopra le spalle; E ch’or si manda innanzi. Or più secura Caminerà senza voltarsi a dietro. Ma cotesto, Signor, non è la morte Pianger de’ figli; ma la vita vostra. ATRIO Quando da morte naturale spenti Fossero stati, avrei men doglia assai. CONFESSORO Il morire a ciascuno è naturale. E la morte è tutt’una. Ancor che molte Sian le maniere. Onde, o nessuno more Di morte violenta, o moion tutti. Poiché tutti la morte a un modo preme. Ma per uscir d’una prigion, che importa, Che s’aprano le porte da sé stesse: O fian per molta forza aperte, e rotte? Ma quei, che elesser; che invitar la morte, Come morir di morte violenta? Violenta è la morte di colui, Che suo mal grado more, e molto pena. Non di colui, che vuol morire, e ’n breve Spazio da questa vita si diparte. ATRIO Duolmi di questo sfortunato regno, Che dopo me restar de’ senza erede. CONFESSORO Spesso al re manca il regno, al regno mai Non manca il re. Cotesta cura agli altri, Che verran doppo voi, lasciar dovete. Purtroppo abbiam travaglio del presente; Senza prender pensier dell’avvenire. Pur, se tanta pietà del regno avete, Tanti giovani egregii Adria sostiene, Adottatevi alcun di lor per figlio. Che prima conosciuto, e prima eletto Sia, che diletto. E dalla elezione Nasca l’amore. Il che avvenir non puote. (Anzi il contrario avvien sempre) ne figli, Dal padre amati pria, che conosciuti. Ma ecco il Mago, e dietro a lui lo stuolo De’ Sacerdoti in loro abiti sacri Co’ libri in mano, che dal tempio uscendo, Vengono a sepelir la pena vostra. CORO Ecco la mia signora, anzi non ella, Ma il cadavero suo sopra la barra. Tu donna, tu donzella, Che sì superba vai di tua beltade; Mira costei, che già sì fresca, e bella, E viva, e sana, e lieta Entrò nel suo palagio; Come dopo lo spazio di poche ore Ne vien portata fuore. Odi, e vedi Orontea sotto atro velo, Che spargendo ne vien lamenti al cielo.
[4.4] Mago, Orontea, Gentildonna, Atrio, Semicoro, Nutrice, Consigliere.
MAGO Or, che cinta dell’ombra della terra Vien la notte, andiam tutti a tor la figlia Del re, per sepelirla. Voi tre soli Restando, alzate con ingegni il marmo, Che alla tomba real porge coperchio. ORONTEA Dunque tanta impietade in voi si trova, Che la figliuola mia di casa tolta, Da queste braccia, e dal materno aspetto M’avete a mio dispetto? L’esser reina vostra, che mi giova? Ma non sarà così. Che così incolta Vi seguirò dovunque andrete. E insieme Con la figliuola mia sarò sepolta. Qual sarà quell’Oreste, Qual sarà quella rea, Quella Progne, o Medea, Che mi divida dal mio amato seme? O figlia, a me più, che questi occhi cara, Noi ti uccidiam con le parole vane. Tu con la vera tua morte ne uccidi, Con le minaccie, che da questa bocca Mia vengono, io ti uccido. E tu mi spira Del bevuto velen mentre ti bacio, Onde e vendetta, e compagnia t’acquisti. Ecco la prima speme Del genero bramato, e la seconda Degli aspettati poi dolci nipoti Sì verde, e sì gioconda, secca, e perduta a un tratto. O come ’l nostro ben sen fugge ratto. Così del regno de’ Sabini prendi Lo scettro, e la corona? Così si va a marito, e al maritale Letto tra l’ossa morte? Il palagio reale, Che a te, novella sposa, apre le porte Sarà la sepoltura Solitaria, et oscura? A tai splendide nozze t’accompagna Lo tuo popolo, e’l padre, E la tua mesta madre? (Anzi non madre più, né men più padre.) In vece delle faci maritali Ardono i torchi mesti. Questi pianti funesti Risuonan d’Imeneo le chiare lodi. GENTILDONNA Già lungo spazio i sacerdoti fermi Qui v’attendon, reina, Tratti al suon della vostra alta ruina. MAGO Rendere, o re, o reina è tempo omai Alla terra il terren di costei velo, Gli occhi, e ’l cor, dalla figlia ergere al cielo. ATRIO Chiuda quanto più tosto il monumento La figlia, e ’l nostro cor chiuda il tormento. ORONTEA Figlia, da che non puoi restarti meco, Verrò al sepolcro teco. Tu, pietoso feretro, Tanto in te fammi loco, Che con la figlia mia caper vi possa, Sì che da lei mai più non sia ritmossa. MAGO Lumi, che portiam per l’aer nero Rischiarino il sentiero All’alma, che pur mò fece partita Da questa nostra vita. SEMICORO Dalle, Signor pietoso, Sempiterno riposo. Goda di là nel secolo futuro Giorno perpetuo e puro. GENTILDONNA L’ordine dell’essequie omai si stende. Vanno innanzi spiegati i confaloni, E d’Adriana assai più alti doni. Ma ’l primo è lo stendardo, ch’oggi tolto Fu al re Merenzio, e al prencipe Latino. Non so, se per ventura o per destino, NUTRICE Ecco il dolente scettro, e la corona, Che tu portar dovevi in testa, e ’n mano, Ti son portati avanti in alto e in vano. GENTILDONNA Quattro maggiori prencipi del regno Le generose spalle han sottoposto A l’onorato peso del feretro; E gli altri vengon poi piangendo dietro. NUTRICE I lumi, onde vai cinta d’ogni intorno T’apran di là, figliuola, un chiaro giorno. GENTILDONNA Ecco, la pompa funeral s’invia; Et il re sventurato Col consigliero a lato, E la reina mia Con la nutrice appresso, e l’altre donne D’Adria in oscure gonne Ponsi con gli altri in via, E noi ancor faccianle compagnia. MAGO Spirto quinci partito Tal compagnia di quelle alme felici, T’accompagni di là, qual or tra noi Al sepolcro accompagna i membri tuoi. SEMICORO Dalle, signor pietoso, Sempiterno riposo. Goda di là nel secolo futuro Giorno perpetuo, e puro. ORONTEA O figlia (se pur dir figlia mi lece) T’accompagna colei dunque allo avello, Che dovea andarti innanzi? Tu dunque più di me ami il fratello, Che ne lasciò pur dianzi? GENTILDONNA Non v’affligete alta reina nostra. Che se la figlia vostra Non è tra l’alme beate Accolta omai nel bel sito felice, Rinovata vita meglio, che fenice. ORONTEA E me lassa, a che guisa Lascia nel mondo in cui fin qui vissuta Tanti giorni non son, quanto in un solo Giorno vi soffro duolo? GENTILDONNA Sono i martìri, e i mali Medicina a’ mortali. ORONTEA O voi, che foste, o voi che sète madri, A voi mi volgo sole, Che sole il grave affanno mio stimate. Deh, di grazia pensate Qual esser debba, e quanto Lo mio angoscioso pianto; in duo dì soli, Duo unichi perdendo almi figliuoli. GENTILDONNA Or giunti siamo al porto D’ogni miseria umana, Alla casa, al seplocro d’Adriana. NUTRICE Fino i sassi han pietà della tua morte. Ecco levarsi a gran tardanza il marmo Del monumento, quasi, che si levi, Contra sua voglia, e a chi lo trae resista. MAGO Sire, prendete l’ultimo commiato Dalla figliuola vostra, Pria che’l seplocro a vostri occhi l’asconda. ATRIO Figlia, poiché tu stessa a te facesti La forza, che nessun fatto t’avrebbe; Agghiacci col tuo corpo ogni tuo sdegno. Pur se con colpa io son, né tu sei senza. Io credei poco, e tu credesti troppo. Io non credei, che tu per far mai fossi Quel che facesti, e tu credesti, ch’io Dovessi far quel, che per far non era. Sposa io ti volsi far, per farti madre. Tu facesti, che padre io non restassi. Vivo ancor del real manto spogliarmi Volsi, per adornarne il tuo marito. E tu mi copri d’abito lugubre. Io per teco restar, privarmi eleggo Dello scettro, e donarlo al tuo consorte. Tu per fuggir da me, la morte eleggi. Questi mei merti andran somministrando Conforto all’alma, che non può ritrarsi Affato dal dolor di questa carne. Restati in quel riposo, che a noi togli. Lasciane in questa luce, che ne oscuri. E quando tu di qua tornar non puoi, Costà tra poco tempo aspetta noi. CONFESSORE Poi che si tosto a rivedere avete La figlia altrove, omai sciogliete, sire, Dal core il duol, le braccia dal feretro. ORONTEA Né tu restar, né venir posso io, figlia. Il dolor crudelissimo tiranno, Ch’io mora già non vuol, ma ch’io languisca. Perch’io porti, vivendo, invidia a morti. Io, crudel, fui cagion del tuo morire, E tu (qual’è il mio merto, e ’l mi’ desio) Esser non puoi del mio. O felice Niobbe, Che co’ figli perdesti anco la forma. E in un fosti il cadavero, e’l sepolcro. Tra morti gli accompagni, E tra vivi li piagni. Perché, crudel natura, D’Altea, d’Agave ai figli non donasti La vita de’ miei figli, e a mei la loro? Non fòran quelle madri scelerate, Né io fòra dogliosa, Di viver lassa, e di morir bramosa. Coteste mani al tuo petto composte, Figlia, han guasto ogni nostro bel disegno. Tra tanti fiori, il più bel fior perdiamo. Perdiam tra tanti lumi, il lume nostro. Cotesto volto al ciel converso il mira, Quasi sua patria, e noi spinge in abisso. L’abito bianco, ond’hai coperto il corpo, D’atri pensieri a noi copre la mente. Le fronde verdi, che sotterra porti, Mostrano ben, che viene Teco ogni nostra speme. Questi mei baci prendi, Ma perché non li rendri? Questi, figlia, son tuoi, E questi renderai a tuo fratello. Io dianzi tenni te fanciulla in braccio. E perché la mia vita sarà corta, Tu tra le braccia tue mi terrai morta. Figlia, vattene in pace, Vattene in pace, figlia, Anzi andiamo ambedue. Tu (se pietoso sei) Me sepelisci, e lei. CONFESSORE La reina, signor, non sa levarsi Da pianger la figliuola. Né altri ardisce moverla; se voi Non gite ad abbracciarla, E con dolce pietate indi levarla. GENTILDONNA Il re sostiene, e abbraccia la reina. Ma non so qual di lor per trarne aiuto Sia più forte, il sostegno, o il sostenuto. ORONTEA Ahi signor, qual di noi Può dar conforto all’altro? Siam pur senza figliuoli. Siam pur rimasi soli. GENTILDONNA Ite donne, a soccorer la reina, Caduta in accidente, E ’l re che mal sostien duo si gran pesi. Che a lui sol sopra stanno. L’affannata mogliera, e’l proprio affanno. NUTRICE Figlia, se avvien, che morte or ne disgiunga, Questa medesma spero, che per sempre Tosto ne ricongiunga. GENTILDONNA Ecco, che con le faccie adietro volte Per suprema pietà quei, che n’han cura. La donzella al seplocro, e al lungo sonno Danno con la maggior fretta, che ponno. MAGO Acconciatela a punto nel seplocro, Come se fosse viva, E non de’ sensi priva. GENTILDONNA O sventurato re, che delle mani E della veste si fa muro agli occhi, Per non veder colei, cui già vedere Li fu sommo piacere. MAGO Vattene in pace al tuo viaggio estremo, Che te, non dopo molto seguiremo. Dalle, Signor pietoso, Sempiterno riposo. Goda di là nel secolo futuro Giorno perpetuo, e puro. MAGO Chiudete il lasso. Voi spengete i lumi. Voi ministri, portate dentro, al tempio Gli stendardi, ove restino sospesi. E voi Signori, or che l’essequie sono Fornite, verso la magion reale, Benedetti dal ciel, movete i passi, Coi pianti, e coi sospir facendo tregua. CORO Di che ti alteri, o uom? con quale spene Di stancar brami lungamente in questa Valle di pianto, che vita si noma? A che fine? a che bene? Dove ’l corpo or sostiene, Ora l’animo pene. Or essiglio, or catene. La fatica or ti pesta, Il caldo or ti motesta. Or il freddo t’infesta. Or onda, ora tempesta Or guerra, or fame, or peste, ahimè, ti doma E godi o uom sotto si grave soma?
Il maggior don, che dar possan li dei, È non far nascer gl’uomini, o di terra Tosto levargli, allor, che nati sono. Pensati, o uom, che sei; Pensati, che esser dei. Pensa; ove movi i piei. Pensa, ove andaro i miei? E pensa, che sei terra, Pensa che sarai terra, Pensa, che movi in terra, Pensa, che andaro in terra. E godi poi, se puoi, ch’io tel perdono. Ma non chiuder gli orecchi a questo suono.
Tosto che nati, anzi per meglio dire, Che siam concetti noi, non cominciamo Della morte a imparar la trìta via? Ogni notte il dormire Non e un breve morirei? D’ una in altra età gire, Non è l’età perire? Di che concetti siamo? Con che pena nasciamo? Con che noia viviamo? E periglio moriamo? Pensalo, e poi di’, se matrigna ria Fu a l’uom natura, e madre a gl’altri pia.
Nessun altro animal nasce spogliato. Chi con pel, chi con piuma si ripara. Nessuno altro animal s’annoda in falce. Chi nasce d’unghie armato. Chi di denti è dotato. Chi di corna adornato. Chi di tosco ispirato. Non fa case, od appara. Non semina, non ara. La terra, a noi avara, Il tutto gli prepara. Sol l’uomo ignudo, e disarmato nasce, Del suo industre sudor si copre, e pasce.
Conosce l’util suo, conosce il danno, Per sé si move ogni animal nascendo, E sa, ciò che saperse gli conviene. Gli uomini fermi stanno. Nascendo, a imparar hanno Tutto, sol pianger sanno Il lor futuro affanno. La donna, partorendo Geme, talor morendo. Ohimè, che augurio orrendo, Quando al fanciullo, uscendo Dal matern’alvo con ceppi, e catene Come a reo, tutto’ l corpo avvinto viene. Il fanciullo senrza arte, e senza ingegno, Perché ’l latte aborrisca, e metta i denti Parli e impari; qual soffre, e porge noia? Nel giovinetto ha regno Amor: non ha disegno. Fermo, e senza ritegno, Di furor, d’ ire pregno, L’uomo ha i pensieri intenti A gradi più eminenti, A entrate, a discendenti, Regge famiglie, o genti. Il vecchio è sempre infermo, non ha gioia, Senza sensi, e non può far, che non moia.
O felice animal, che i freni solve Della vergogna a far ciò, che li piaccia. Miser uom, cui l’onor pon sì rio freno: La morte ti dissolve, E in fumo, in ombra, e in polve Il corpo al fin risolve. E in vermi, e in serpi il volve. La casa allor ti caccia, Par, che a l’aer tu spiaccia. L’acqua non vuol, che faccia Dimora in lei. Le braccia Apre sola la terra, e nel suo seno T’inghiotte, qual pestifero veleno.
Il fine del Quarto Atto.
[5.1] Mago solo.
Tutto il disegno, ch’io composi dianzi Con Adriana, è già quasi successo. Perché la innamorata accorta, e ardita Ha preso il mio consiglio e la mia polve Nell’acqua. Ond’ ha provisto a quella sete, C’ha del suo amante, il suo bramoso core. E con mentita morte oggi ha schernito Non pure i suoi, ma ancor gli Erasistrati. Che già per morta l’han pianta, e sepolta, Resta or solo, che ’l prencipe Latino Giunga a cavar costei fuor del sepolcro. Acciò, che ’n lei distrutto il mortal ghiaccio Non si rinovi poi ghiaccio di tema. E quel che finto fu, vero non fosse. Che s’ ella si vedrà fra i morti viva, Non la troviamo poi fra i vivi morta. E già stupisco, che ei non venga, o almeno Il ministro che incontro li mandai Subito con la lettera notata, E soggellata di mia man, che’ l tutto Avvisandoli vien di parte in parte. Come promisi alla real donzella. Che per non perder per sempre il suo amate. Per molte ore soffrio perder sé stessa. Ma ecco quel, che andò proprio a incontrarlo, Ma vien solo. Udirò da lui il tutto.
[5.2] Ministro, Mago.
MINISTRO A colui, che affatica, par godere D’ogni fatica sua l’intero prezzo, E gli è grato il sudor, gradita l’opra, Quando può conseguir quel fin, che’l mosse. MAGO Ministro, che novella mi rapporti Del viaggio, e dell’opra, ch’io t’imposi. E perché tre non siamo, anzi che dui? MINISTRO Signor, la mia rattezza è stata quanta Desiar si potea, non che sperarsi. Ma, MAGO Temo questo ma, non male apporti. MINISTRO Avuto ho nell’andar la sorte avversa. Ho raggiunto l’esstercito, che affretta Dietro al suo duca in Lazio a gran giornate. Ho domandato di Latino; e inteso Che un messo pur allor l’avea chiamato: A cui dietro spronando ello era gito, Senza aspettare ’l giorno, o dirlo al padre, Senza seco voler servo, o compagno, Senza dir dove andasse, o dove, o quando Fosse per ritornar. Sicché le genti Dietro al padre ne van senza aspettarlo. La lettera, che voi mi commetteste, Che non si desse ad altri, che a Latino (Perché spiegata, altrui non ispiegasse La vostra mente) altrui fidar non volsi. Ma la riportai meco, e ve la rendo, Vergine com’io l’ebbi. La gran fretta, Che mi deste al tornar, non mi die’ tempo D’aspettarlo ivi, o di cercarlo altrove. Tanto men non sapendo ove foss’ ito. E sapendo, che più non tornerebbe Là, dove le sue genti avea lasciato; Che fuggìan tuttavia verso il lor regno. E sperando incontrarlo nel ritorno, E perderlo temendo nel cercarlo. Il bisogno, che credo, che n’abbiate, E la sollecitudine, e ’l desio Di non far poi i passi mei imperfetti, M’insegnar, ch’io lasciassi ordine a molti De’ suoi, che quando il prencipe tornasse, Gli dicesser, che un messo a nome vostro Era stato con lettere a cercarlo. Se più far si potea, signor, mi spiace Non lo aver fatto. Quel che fei e basta Piena mercede è d’ogni mia fatica. Se vi pare or, ch’io resti, o che là torni; A restare, e a tornare eccomi pronto. MAGO M’incresce assai, che non abbi trovato Il prencipe, e che torni a me con quello, Ch’io non vorrei, e senza quel che bramo. Con la lettera mia senza Latino. Temo non greve mal qua venga in vece Di costui che non vien pavento, e tremo; Che la fortuna non ancor satolla Delle lacrime nostre, e de’ sospiri, La tela anzi ’l tramar ne stracci a un tratto. Che sarà? Che farò? Mira, et ascolta, Se vedi, o senti alcun qui inorno. MINISTRO Io vado. MAGO Se non appar alcun, vo trar costei Dell’arca, e porla in più securo loco, E me levar di tema, e pormi in pace. E ben lo potrò far, poiché lo’ngegno, Onde i ministri agevolmente alzaro De l’arca il marmo, ancor non e disciolto. Io lo spedii pur subito, ch’ intesi Dal messo il falso annunzio della morte. MINISTRO Due persone in qua vengon sì ristrette, E sì celate, che (quantunque splenda Cinzia nel ciel) conoscer non si ponno. MAGO Il disegno m’è guasto, entriamo dentro, E passati costor, tornerem fuori. Che a un gran negozio mio ti vo compagno.
[5.3] Latino, Messo
LATINO Dunque credi, che qui siam giunti a tempo Che sia la principessa già sepolta. MESSO Sepolta è già. Che tutta la cittade Sta sepolta in silenzio. Onde il reale Albergo è fatto un’altra sepoltura. LATINO Qual è l’arca real, che dovea accorla? MESSO Là volean por colei, che lungo spazio Meritava di viver qui tra noi, Che vi turba signor? Di che piangete? LATINO Cortese affetto, e tenero mi tocca, Quando penso tra me, che una donzella (Per non si maritar contra sua voglia) È morta lietamente di veleno. MESSO Fu morta dal velen, ma più dall’ira Contra color, che volean farla sposa. LATINO Perché qui meco non ti trovi alcuno; E ’l far piacer a me non ti sia danno; Meglio è che vadi, e qui mi lasci solo. Io troverò il gran mago, e farò quanto Ho a far con lui. MESSO Signor se l’opra mia Vi pur bisogna; a voi e a me non fate Torto, di riputarmi per indegno. LATINO Basta quel che facesti, e più non chieggio. E perché mai non seppi esser ingrato Verso chi mi servì; ti rendo tante Grazie, quante parole, e quanti passi Hai speso nel portami l’ambasciata. E poi ch’altro non ho, con che premiarti Meco, ti dono questo manto; e voglio, Che te ne vesta, e ’l porti in rimembranza Lunga del primo, et ultimo servigio, Che mi fai. Non so quando avrai più loco Mai di servirmi, aiutami a spogliarmi. MESSO Dio mi guardi, signor, che mai si sappia, Ch’io v’abbia tratto qui di notte solo, E poi spogliato. Assai porto, se porto La grazia vostra, e voi lasciar non debbo Contra la dignità, senza la vesta. E la nutrice si dorrebbe, ch’io Voluto avessi il guiderdon da voi Dell’opra del camin, ch’ella m’impose. LATINO Se nol prendi, io dirò che per nemico Mi tieni. E se nol vuoi per sempre; tienlo Fin che si riveggiam di novo insieme. Poich’or mi grava più che non mi copre. MESSO Io dunque spoglio voi, non per vestirmi, Ma sol per isgravarvi, e compiacervi. LATINO Quando ragionerai con la nutrice, Rendile immense grazie a nome mio, E dille, ch’udirà ben tosto nove Pari a quelle, che udire ella mi fece. E, che s’io non avessi a gire altrove Sì tosto, le darei giusta mercede. MESSO Domani il tutto le dirò. Poich’ora Tornar conviemmi fuor della cittade A un gran negozio. LATINO Va’ felice. Il cielo Ti guardi da saper, ciò che sia affanno. MESSO E voi restate in eterno riposo.
[5.4] Latino solo
Or, ch’io son sol, posso allargare il passo Alle parole, ai pianti, e al fine all’alma. In questo tempo della meza notte, In profondo silenzio, e’n queto oblio Giace, e riposa il tutto, io solo desio, Mi lagno, mi tormento, e m’apparecchio Al sonno eterno, in questo eguale a un cigno. Non ho chi mi conforti a stare in vita, E non ho chi m’aiuti a darmi morte. Eri vidi per me l’ultimo giorno. Ora veggio per me l’ultima notte, Cui maggior notte sovragiunger deve. O Luna, arresta la tua lampa, e fammi Grazia, ch’io veggia anzi la morte mia. Colei, che su’l mio pianto ha quella forza, Che sovra l’onde hai tu dell’oceano. O seplocro di quella, in cui sepolto son io; ti stringo con le braccia, e strette Poco dopo farò tra le tue sponde. Un sol rinchiuder pensi, e duo rinchiudi. Benché chiamar seplocro non ti debbo, Ma erario, ove s’asconde il mio tesoro, O mar di Spagna, ove l’mio sol tramonta. Avess’io la virtù di quella fiera, Che col ruggito suo ravviva i figli. Che con sì alto tuon griderei; ch’io scoterei questi marmi infin dal fondo. O marmi, che ’l bel viso mi celate, E col ciel vi partiste ogni mio bene; Deh, per pietade, apritevi. Ond’io miri Quell’oggetto, per cui cari ho sol gli occhi. Se di mirarlo non avessi speme Con levarne il coperchio, o marmi duri, Vi piangerei sì lungo spazio sopra, Che col lungo picchiar v’incaverebbe Delle lagrime mie l’assidua pioggia. O madre, se sapeste, ove or dimora Il figlio vostro; so, che a ricercarlo Verreste incontro a minacciose schiere. Quand’io, da voi partendo, era sì spesso Da voi baciato; o, chi v’avesse detto, Baciatelo, reina, a voglia vostra, Che a baciar, che a veder più non l’avete. So, che non gusterete cibo alcuno, Che di lacrime vostre non sia tinto. So, ch’io sarò cagion del morir vostro. E fu del morir mio cagion mio padre. Qua mi condusse a prender queste mura, E preso il primo giorno io vi restai. Qua mi condusse ad arderle, e le fiamme Riflettendo, si volser nel mio petto. O sorella mia cara. O fida sposa, Già non credei veder la morte vostra. Ma voi la mia. Ma veggio or, che vivendo Voi, morte non potea farmi morire, Che sol mi fa morir col morir vostro. Adriana, io son quel, che vi ha tradito, Che agnella vi lasciai tra molti lupi, E tortorella in mezo a gli sparvieri. Dovea condurti i’ meco, ovunque i’ giva, E con voi campar vivo, o restar morto, Stringermivi nel sen dovea, qual donna Stringe il suo non ancor maturo parto. Né voi tolta mi foste dalle braccia, Pria che le braccia mie tolte dal busto. Voi ben me lo accennaste. Io nol compresi. E voi più chiaro dirlo non osaste. Quando il padre volea darvi marito, Da tutti abbandonata, in mezo ai mali Voi mi chiamaste. Io sordo non v’intesi, Da poi chiamaste morte; ella vi udio, E di me più pietosa vi soccorse. Mi meraviglio sol, che ’l rio veleno, Poi che si sparse per le membra vostre, Non si cangiasse in manna, e non perdesse Ciò che avea di mortal, maligno, e amaro. Ma questo avvenne sol, perché quel core, Che fu dal rio velen ferito, e morto, Non fu ’l vostro, ma ’l mio, che vi donai Del vostro in vece, e a voi si chiuse in seno Ma il velenoso spasmo del mio core Non so, perché non abbia tanta forza In me, quanta il velen vero ebbe in voi. Or vo torre il coperchio, aprir l’avello, Trarne fora il cadaver d’Adriana, Pria vagheggiarlo, e poi morirli sopra.
[5.5]
Latino solo assiso, col cadavero di Adriana in braccio, tratto fuori dell’Arca.
La vista pur mi accerta, o vita mia Dolce, che tu et io siam fuor di vita. E veggio, e sento, e piango la mia morte, E me la stringo in fra le braccia; e faccio L’essequie, e sopravivo a me medesmo. Son queste, ahimè, le nozze, è questo il letto, Letto di duri marmi, ove a giacere Sposi avevamo? È questo il bel convito? Son queste le vivande; ond’egli è pieno, Le lacrime, e ’l veleno? Son questi i crespi crin, che mi legaro Sciolti, e legati raddoppiaro il nodo? È qttesto quel bel volto, ove Amor tenne Suo dolce nido? Che già fu mio Sole, Et or giunto a l’occaso innanzi tempo, Apporta a’ giorni mei perpetua sera? Bel viso, ancor che sii sì scolorato, Non ti doler, che nel mio petto stai De’ tuoi vivi colori adorno, e vago. Son queste le tranquille, e liete ciglia, Che già d’ebano furo, or d’ambro sono. Già d’amor arco, et arco ora di morte? Son questi quei begli occhi, che assignati Furon fatali stelle alla mia vita, C’ora oscurati, adducon la mia morte? Deh, perché di mirarmi ora sdegnate? Apritevi, occhi cari,un sol baleno, E rimirate a cui giacete in seno. È questa quella bocca, onde già usciro Sì dolci accenti, e care parolette? O potessi ispirarle del mio spirto Tanto che fosse di mia vita a parte. Come, o bocca, meschiasti il mèle, e’l tosco? Perché ora a’ baci mei non corrispondi? Forse odii quella bocca ingrata, et empia, Che potè dirti l’altra notte, sposa Restate, a Dio, per qualche dì vi lascio. Lingua, perché ti stai gelata, e muta? Deh moviti, e dì sola Una dolce parola. Et una sola volta mi saluta. Bel petto, s’alla neve nel candore Ti uguagliava, uguagliartele ben’ora Posso in tutt’altre qualitadi ancora. O belle man, che ’l cor già m’involaste, E la mia vita in voi scritta tenete, All’avorio mai più sì propriamente Non potei pareggiarvi come or posso. O nobil corpo, ov’hai mandato l’alma? Ma dovunque sia gita, compagnia Farà l’alma mia all’alma, e l’corpo al corpo. Ecco, che pure ho in braccio La mia reina eletta. Ecco, che pure abbraccio La mia sposa diletta. E son (quantunque indegno) Di chi mi sostenea, fatto sostegno. O Latino crudel, perché pietoso Teco non sei, donando quella morte, A te, che la sventura tua ti nega? Ecco la chiave del mio carcer’aspro. Ecco il vaso, che meco ogn’ora porto. E portan tutti i Prencipi, ove chiuso Sta il veleno, e la morte, per usarlo In ogni caso avverso, e periglioso. Voi bramaste il velen, qual madre grave. E nelle vostre viscere il cor mio Riman segnato della stessa voglia. Fammi grazia, o velen, di trarmi tosto Di questa vita, e un altra grazia aspetta Allor da me di sì bel dono in vece. Tu, che nome acquistato hai di crudele, Nel tor del mondo una sì bella donna, Or titol di pietoso acquisterai, Nel tor del mondo un così miser’uomo. Adriana, perché senza voi resto? Adriana, perché senza me gite? Adriana, io cagion del morir vostro. Adriana, del mio cagion voi sète. Adriana, in voi troppo è presta morte. Adriana, in me troppo è lunga vita. Adriana, non ci ebbe un letto vivi. Adriana, ci avrà morti un sepolcro. Adriana, un amor bevuto abbiamo. Adriana, un velen berremo ancora. Gustate or, labra mie, quanto è soave Tal bevanda, e accettate il dolce invito. Soave, certo, fu la medicina, Che alla salute mia render mi deve; E liberar da questa viva morte, Or che ho bevto il tosco, Posso gettare il vaso, E starmi lieto d’asprettar l’occaso. Così mentre le forze ancor son ferme, Compor mi voglio nel sepolcro, e ’n braccio La mia donna locarmi, et aspettando Star, che finisca in me morte per morte. O Dio, che sento? Sento pur nel petto Batterle il core. E parmi, che si mova, E che spiri. Adriana, che è cotesto?
[5.6] Adriana. Latino.
ADRIANA Ahi lassa, dove sono? E chi mi stringe? Quest’è mago, la fe’ così secura Mi condurrete al mio Latino e intatta? Violando a lui la fede, e la mogliera? LATINO O meraviglia inusitata e nova. Avvien forse, che uscendo da me l’alma, Va ad animar colei, che tanto ell’ama? Deh, dolce donna mia, non conoscete L’afflitto sposo vostro, qui venuto Per morir presso a voi secreto e solo? (Da poi che presso a voi viver non valse) Perché tra tanti mali aveste almanco Questa felicità l’anima sua? Oltra, che strada più secura, e certa Non vidi di passare a lochi lieti, Che lo spirarvi nelle braccia care. ADRIANA Se già la vostra voce, e la mia vista Il volto vostro, e la lucente luna Non han giurato insieme di mentirmi; Voi sète pur Latino, io son pur dessa. Ma quale errore, o qual furor v’indusse Ad assidervi qui? Non vi bastava Saper per nostre lettere, com’io Per involarmi al novo odiato sposo, E agli ostinati mei fèri parenti, Dovea fingermi morta col soccorso Del mago, e poi che la finta bevanda Digesto avessi, risvegliarmi (come Or faccio) e a voi esser condotta in breve Quando accettarmi voi voluto aveste? LATINO O cruda sorte, o sventurato amore. Io di ciò vostre lettere non ebbi. Dalla nutrice vostra solo un messo, Velocissimamente a me mandato, La sorte vostra mi apportò per vera. ADRIANA Quel dolor, che a tal nova voi provaste, Prov’io nel sentir ciò. Ma pur godiamo, Quando altro mal ancor non e successo. Che così a tempo giunti siam, che ancora Uscendo quinci, e in altra parte andati, Vita insime menar lieta potremo. LATINO Eh, non sarà così! La sorte nostra Troppo singolar ben n’avria concesso. La sorte vuol, che voi con lo svegliarvi Solo un poco più tardi, et io all’incontro Col disperarmi un poco più per tempo, Commettiamo un’error, che non ha menda. E un momento ne tolga un lungo bene. ADRIANA E che vnol dir cotesto? Favellate Sì, ch’io intenda; LATINO Ahimè ch’io temo a dirlo E pur convien, che lo sappiate tosto. E voi chiedete grazia di sapere Quel, che di non saper grazia vi fòra. Non vorrei del dolor mettervi a parte, Che serro dentro io sol. ADRIANA Di grazia dite, Fin d’ogni mio desir. Ma donde avviene Che a voi la voce si indebolisce E di cener si vien facendo il viso? Rispondete, signore, e a qual persona L’animo vostro rivelar volete, Nol rivelando alla diletta sposa? LATINO Voi che ’l vostro morir per vero intesi; Arsi di doppio incendio. E perché ’l core Si sostenesse in mezo a tante fiamme (Poi che non arde un cor tinto di tosco) Il veleno composto, e misto in modo, Che senza scampo, e senza indugio ancide, Che ad ogni mio bisogno, io porto meco; Presi. Il quale acutissimo già sento Andar col suo rigor tutto occupando Il corpo, e tutto corrompendo il sangue. Né può molto tardar, che al cor non giunga. Da una parte ’l morir (vedendo ormai Il buon successo, a che da voi le cose N’andavano indrizzate, e d’esser giunto Il tempo di goderci apertamente, Senza sospetto alla fortuna lieta) Aggrevami, e mi aggreva, imaginando In che duol senza me qui resterete; Duol, ch’ io prima di voi pur mò provai. D’altra parte la morte assai mi piace. Poiché Adriana a questo sarà certa Se l’amò il suo Latino, e le fu fido. Poiché or conoscerete la mia fede, Quando rimunerarla non potrete. E che’l ben, che con voi goder non posso, Senza voi, sposa mia, goder non voglio. E che quel mal, che senza me vi oppresse, Vo, che con voi me parimente opprima. ADRIANA Non volea di ciò si chiara prova. Dunque per mia cagion, dunque in presenza Mia, vi vedrò morir, dolce signore? E consentirà il cielo (ancor che poco) Ch’io viva dopo voi? Vorran le stelle, Ch’io, che’n amarvi a par’ sempre vi venni, In questo ultimo fin vi venga dietro? Perché, la vita mia, senza alcun frutto (Morend’io sola) a noi donar non posso, Che più la meritate, e oprate meglio? LATINO Anzi, se l’amor mio, se la mia fede Vi fu mai cara, viva speme mia, Per questa, e quel vi prego, e vi riprego, Che’n vita rimaner non vi dispiaccia. Così consolerete il padre vostro, Così la madre; e sarà il lor conforto Quanto creduto men, tanto più grato. Così gli ubbidirete (come a buona Figlia conviensi) et al Sabino sposo V’aggiungerete; riscotendo gli anni A voi dovuti, e diventando madre D’una onorata, e gloriosa prole. In una vita fortunata, e dolce Reggendo il regno d’Adria, e de Sabini. E lasciando colui morto, e sepolto, Che vivo di godervi non fu degno. Vi prego ben, che quando al novo sposo Darete in preda il delicato corpo, Ch’io vi lasciai (né me ne pento) casto, Rivolgiate da lui tal volta il core Verso colui, che sol per amor vostro Starà tra duri marmi, e crude serpi, Mentre voi in gioiosi abbracciamenti Vivrete col novello amato sposo. Ond’io me n’andrò lieto. ADRIANA Ah, Signor mio, E voi credete, ch’io far possa questo? Sì lieve mi stimate, ancor che donna? E perché noi ancor questo medesmo Consiglio non pigliaste, e non viveste Senza me, con un’altra eletta sposa? Se voi morir per la mia finta morte Non ricusaste, io per la vostra vera, Che farò? Ne morrò duemila volte (Se tante si potrà) nonché una sola. E se elessi venir con morte finta A voi per qualche tempo, a starvi sempre Di buon grado, verrò con morte vera. Dogliomi sol, che’l ciel non mi dia modo D’andarne innanzi a voi. Ma tosto, tosto, Sì come io fui cagion di vostra morte; Così sarò compagna. LATINO Anzi io cagione Son del vostro morir, reina mia. Che vi tolsi il fratel. Deh, basti, ch’io V’abbia ucciso colui, privone il padre, Senza che uccida voi; di voi lo privi. Perché la man, che l’omicidio fece Porse la pena, e’l tosco all’omicida. ADRIANA Non disputiamo più della mia vita. Che quasi egual misura Deve aver con la vostra. Ma sol, come sarà possibil mai, Ch’io vi rimiri, ahimè, tra queste braccia Non morto, ma morir, e andar morendo. Qual lucerna, cui manca il nutrimento, si spegne a poco a poco, Né poter dar a voi, e a me soccorso. LATINO E pur convien, che sia. Ch’io lasci l’una, e l’altra vita mia. E già ogni mia forza, si estingue. Già la virtù a poco a poco manca. ADRIANA Affidatevi in grembo alla cagione Del morir vostro. Appoggiate la stanca Testa al mio petto. LATINO O mia gentil colonna. Non resta altro a fornir il mio viaggio, Che da voi prender l’ultima licenza. Poiché la sorte, o il poco merto mio Non han voluto, ch’io posseda voi, D’ogni speranza mia principio, e fine. D’ogni fatica mia requie, e mercede. (Benché la morte mia non può dolermi, Poiché in coteste amate braccia io moro) Viva restate voi; perch’io non perda, Quella ch’avrete ogn’or di me memoria. Così vi raccommando la nutrice, De’ nostri dolci amor fido ricetto. Fatele voi quel ben, ch’io far non posso. ADRIANA Siate certo, signor, del morir mio subito dopo voi, come del vostro. LATINO Ahi, ch’io perdo la vista, e la favella. Già spasma il core, e giunge al fine estremo. ADRIANA Deh, signor mio, non mi lasciate ancora. Restate ancora un poco. LATINO Ahi, ch’io non posso. Date, e prendete omai l’ultimo bacio. L’ultimo abbracciamento, o cara sposa, O quanto, quanto poco Ci siam goduti in terra. ADRIANA Ci goderem per sempre in altra parte. Aspettatemi pur senza dimora, LATINO O terra, o stelle, o luna Per non vi riveder mai più, vi lascio. Sposa, restate in pace. L’alma mia Va donde venne pria. ADRIANA Ahimè, ch’egli si more, io son qui sola.
[5.7] Adriana sola
Egli è pur morto, egli m’ha pur lasciato. Ahimè, sposo, ahimè sposo. Ahimè marito. Da dover fu il suo amarmi, e’l suo morire. Finto parve il mio amor, come la morte. Ma non si dirà più certo, ch’io finga, Com’hai potuto dar la morte, o morte A chi morte toglieva, e dava vita? Come non ti cangiasti, o morte, in vita, Presso la vita mia nel darle morte? O grato, e ingrato, o dolce, e amaro peso, O fortunato augel, che col tuo sangue La vita rendi alla tua spenta prole; Dammi cotesta tua virtù, che or ora Svenandomi verrò di parte in parte. Darò con la mia morte al morto vita. Non posso. A me potrò ben dar la morte. Vorrei che qui giungesse alcun pietoso, Che con lui mi tornasse entro la tomba. Vigor’ io non avrei per far quest’opra. Convien che mio mal grado io viva, e aspetti. Ma perché altrui pietà non mi disturbi, Fingerò d’aver già bevto il tosco, Et esser presso al fin. Ma ecco il mago. Ora da lui avrò quel che non ebbi.
[5.8] Mago, Adriana, Ministro.
L’uom, che ha negozio in man secreto, è grave Quanto più sciolto esser vorrebbe, e questo Più va cercando sviluparsi; tanto Più vede attraversarsi impedimenti, Che mal suo grado, il vengono turbando. Or, che sciolto pur sono a gran fatica Da quei, che men volea, che men credei; Andiamo, onde tornati esser devremmo. Ahi signora, che veggio? Con qual arte Usciste del sepolcro? A preghi vostri S’apriron forse i marmi? E chi è questi? Che nel bel grembo vostro estinto giace? ADRIANA Dunque non conoscete il vostro amico? Ah signore, signor. Sì ben mandaste L’ambasciata, o la lettera a Latino? Eccolo. Egli mi trasse del seplocro, E stimandomi morta, il velen prese, E morto cadde allor, ch’io fui risorta. Il che si fe’ due ore, o tre più tosto, Che non portava il tempo della polve, Movendomi, e stringendomi Latino. MAGO O sfortunati amanti, o cruda sorte. La lettera mandai. Costui portolla. Ma non trovò Latino, il trovar prima Color, che gli apportar gli annunzi tristi. MINISTRO S’io punto nel camin tardato avessi, Avrei da sospirar, da pianger sempre. MAGO O prencipe gentile, o caro amico. Come vi trovo, e perdo. E voi signora, Che pensate di far? Che non è tempo Di indugiar qui. Si che le genti armate De’ ministri reali andando intorno, Vi ci trovino posti a questo modo. ADRIANA Ho già fatto il pensier, già fatto l’opra. Già bevto l’avanzo del veleno (A cui non è rimedio, né dimora) Avanzato al mio sposo, non potendo Goder altro del suo, per darmi morte. Accioché morte (che poteva sola Dividermi da lui) non men divida. Morte pietosa più de’ mei parenti. Morte più tarda assai del mio desire. Benché già sento al cor giunto il veleno. Ma si tosto non mor, perché ’n sé tiene Del suo amante l’imagine vitale. A voi resta ver noi l’ultimo ufficio. Acconciarne amboduo dentro all’avello. Poi chiuderlo, et andarvene, e far tosto. Or non restate più pensoso, e muto. MAGO O come tardi, e senza frutto giungo. ADRIANA Vi prego ben (se prego appo voi vale) Che i padri nostri nol risappian mai. E quando questo pur si risapesse; Io vi prego pregarli a nome nostro, A lasciar giunti doppo morte i corpi, Come già i cori in vita, e ’n morte l’alme. MAGO Ohimè, che debbo far, che affatto siamo Privi, voi di soccorso, io di consiglio? ADRIANA Pregovi ancor, che tutta questa istoria Scolpir facciate in duri marmi: e porre Dentro al nostro seplocro. Ove altrui occhio Giunger non possa. E poi supplico il cielo, Che qualche autor, mosso a pietà, negli anni Avvenir la riduca in forma, ch’ella Possa rappresentarsi a’ fidi amanti, Che de’ caldi sospir, delle pietose Lacrime loro, ornin la nostra morte. E dalla nostra tomba questo loco, Prenda, e conservi eternamente il nome. MAGO Promettovi di far quanto chiedete. Meglio, che già non feci, ancor ch’io voglia Tosto lasciar questa città dolente, Piena di tante tragiche sventure. ADRIANA Or non s’indugi più, ch’altri non guasti il Nostro disegno; e col mio amante in braccio Aiutatemi a por dentro al seplocro. MAGO Guardimi Dio, che viva vi sotterri. Succeda ciò che vuol, soffrir non posso Peggio di quel che soffro. Quinci non partirò, fin che partita Non è da voi la vita. ADRIANA Sepelite costui di grazia almeno, Che più regger nol può lo infermo seno. MAGO Questo, di che pregate, è ben ragione. Aiutami al pietoso, e crudo officio. MINISTRO Mai più men volentier non vi aiutai. ADRIANA Mentre costor son occupati in altro; Ago clemente, e solo Rimasomi soccorso nel mi duolo, Da me trovato a caso (Mentre’l sen mi percoto) nella veste, Con cui di seta reticelle, e d’oro Eran da me conteste; Trammi del mio dolore. E s’egli senza me non può morire; Trammi di vita fuore. Passa per mezo il core. Passalo, e ancora raddoppiando il colpo, Passalo un’altra volta, e un’altra, or basta. Aspettatemi, sposo, ch’io vi seguo. MINISTRO Ahimè, che avvelenata ella non era. Ne ha posto in opra; e con non so qual ferro Assi aperto nel core ampia ferita. Et è già fuor di vita. E un gran fiume di sangue si dilaga Dalla profonda piaga. MAGO Lasso, che a ingannar gli altri le insegnai, Et or con l’arte mia me inganna ancora. MINISTRO Ponianla nell’avel, che qui non siamo Come omicidi colti. E ’l tutto in fretta Facciasi, che già miro Dal real tetto uscir drappel di donne. MAGO Riponianla. Rinchiudi ora il sepolcro. Adriana, oprerò quanto promisi. E poiché sia scolpita La mesta istoria della tua sventura; Tornerò a porla in questa sepoltura. Imparate, donzelle, Non maritavi, senza Voler de’ padri vostri. Però che ’l matrimonio senza questo, Esser non può, se non dannoso, e mesto. MINISTRO Restate amanti, come star vi piace. Né mai vi turbi alcun la vostra pace. MAGO Ora senza tornar più nell’albergo, Sgombriam da queste mura per la porta, Che a incontrar va l’essercito Latino, II qual se incontrerem, ne darà il passo. MINISTRO Andiamo tosto. Udite, che dolente Voce di qua si sente. Et ecco apportator di triste nove. Fuggiam ratto, signor, fuggiamo altrove.
[5.9] Messo, Coro.
MESSO Fugga, fugga ciascuno. Fuggite uomini, e donne agli alti monti. Benché monte sì alto esser non puote, Che scampi alcun dalla crudel procella. Lasci ciascuno il letto. Sgombri ciascun la casa, E da questa città ciascun sen’ voli. Chi per suo bene è fuori, Il pie’ non porti dentro A pigliar pur la vesta, o il proprio figlio. CORO Che novo mal fia questo? Che pianto, e grido mesto? MESSO Su cittadini, in fretta. Che fate, che vi tiene, Che non prendete una veloce fuga, Adria lasciando, e le sue meste mura? CORO Messo, se non ti grava, Che nova apporti prava? MESSO Non chieder altro, e fuggi. Fuggi, e non chieder altro, Donna, e teco ciascun di questa terra, Né ’n dietro mai si volti. CORO Deh, fa, che ’l ver più chiaramente ascolti. MESSO Mezenzio uscito del paese nostro, Dove gran parte di sue genti perde, Non potendo con l’arme vendicarle; (E come da’ suoi proprii or ora ho inteso, Sognato avendo il figlio, il qual dicea. Padre non mi vedrete più, che resto Morto e sepolto nel nemico regno. Fate del mio morir crudel vendetta Contra il re Atrio, e ’l principe Sabino, Che congiurar contra la vita mia) Acceso contra noi d’ingiusto sdegno, Dalla contraria parte, ov’ei camina, Tagliar fece un’altissima montagna, Schermo, et argine antico a tutte l’acque, Che ponno apportar noia a questo regno, Per inondarlo, e sepelir nell’onde. Quelle trottando una sì larga porta, Scendono ora con furia a falde, a masse Precipitose a gara, a laghi, a mari, Con istrepito tal, che ’l cielo assorda. Spingon le prime, e son dall’altre spinte, E spargendosi vengon per li campi. Né perché ’l gran diluvio si dilati Per ogni parte; la sua altezza scema. Anzi alle nubi sì d’appresso giunge, Che tor l’acque potran per farne pioggia, Senz’ire al mar, senza chinasi a terra. E tutta questa furia a scaricarsi, Come in propria sentina, in proprio vaso, Sovra questa città dritto ne viene. L’erbe, i fruttici, e gli arbori son danno Sì lève, che di lor non si ragiona. Questo orribil furor dietro si tira Gli armenti, le capanne, e i lor padroni, Anzi le case, anzi le ville intere. Gli animai d’acqua pieni, e d’alma voti, Coi musi in alto, e coi pastori accanto, Vengon giù tratti dalle rapid’onde. Gli uccelli stanchi, sostenuti un pezzo In su ’l valor dell’ale, al fin cadere Si lasciano piangendo in grembo all’acque. Non si ved’altro più, che in ogni lato Acqua, e ciel, cielo, et acqua. Dovunque passa lo spietato danno, Non differiscon più la terra, e l’onde, Il tutto a un guardo sembra un fiume solo, E il fiume non ha rive, e non ha fondo. Più non s’attende alla pietà del sangue. Ciascun lascia i più deboli, e i più vecchi. Il fratel la sorella. Il figlio il padre. Il marito la moglie. E ciascun cerca Di ricovrarsi alle più alte cime, Che al fin poi resteran dall’acque oppresse. Io con alata fuga mi dileguo Dinanzi a questo impetuoso orgoglio, Che molto non può star, che qui non giunga Dove non sarà casa, o tempio, o torre, Che molto inferior non le rimanga. Sommergeransi i bei palagi nostri, E tutti quei, che vi fian colti in mezo. Conche d’acque saran quest’ampie loggie, Queste piazze, questi archi, e queste mura, E col tutto del tutto ogni memoria. E così resteran molti anni, e molti. CORO Ahimè, piangiamo insieme Il gran mal, che ne preme. MESSO Non lacrimate, donne, il vostro male, Tutta piangete a un tempo la cittate. Che ’n danno universale Si disdicon le lacrime private. Più tosto apparecchiatevi alla fuga. CORO E dove fuggiremo Donne imbecilli, e stanche? Sarem preda dell’onde, esca de’ pesci. Loco infelice a te stesso rincresci. MESSO Anzi, non può fuggirsi. Di qua l’acque han la strada, Di là Mezenzio assedia ogni contrada. Ma che vi dico, donne? Udite già il rumor, che a noi s’appressa, Qual di molte molina accolto suono, O come di celeste orribil tuono. CORO L’udiamo, e ’l gran timor così ne ’ngombra, Che a noi medesme impedimento siamo, Né fuggir, né fermarci al fin sappiamo. Ma sol batter le palme, e gridar forte, Per la morte fuggir, chiamar la morte. MESSO Fate, che intenda il re con la reina Questa sì gran ruina. CORO L’alte grida, e’ l concento Delle palme percosse, Il pon destar, se addormentato fosse. La reina destar più non si puote, Che ’n perpetuo riposo ha posto l’alma. Entrata nel palagio, e nella stanza De’ figli, mirar volse ad una, ad una Le vesti lor. E giunta a quel ritratto Ove stanno dipinti ambo duo i figli; Fermossi immota, e’n quel dolente aspetto Stata gran pezzo, torcendo le mani, Vinta dal gran dolor, morta si stese MESSO O misera anzi pur lieta reina, Morta innanzi il veder si gran ruina. Sol mai non giunge un mal, giungono molti, Sempre in drappel raccolti. Per poco mai fortuna non comincia A perseguire un misero, ella il preme. E mentre ei piange, intanto Gli apparecchia cagion di novo pianto.
Il fine della Adriana |